Bambine e bambini/
Contro le armi-giocattolo (e altri temi)
In questo numero XIII/2 del 2014 di Genesis, rivista della Società Italiana delle Storiche, dal titolo Bambine e bambini nel tempo (Viella, Roma, 2014, pp. 204, e 26,00) l’argomento proposto per la ricerca intendeva: “esplorare il tema della costruzione sociale del genere, nelle culture per/dell’infanzia in un’ottica interdisciplinare, su un arco cronologico lungo, privilegiando la prospettiva del gioco, del giocattolo e loro uso, e della letteratura per l’infanzia”.
Tuttavia, come sottolineato nell’introduzione a cura di Stefania Bernini e Adelisa Malena, i contributi pervenuti riflettono lo stato attuale della ricerca: quattro saggi su cinque trattano di letteratura e di cinema, si concentrano pertanto su modelli pedagogici. Dunque, costruzioni e produzioni culturali elaborate dagli adulti e destinate all’infanzia lasciano nell’ombra bambine e bambini come soggetti attivi.
Comunque, in due contributi viene messa in discussione la tesi di Mary Jo Maynes sulla maggior difficoltà a udire la voce delle bambine rispetto a quelle dei bambini. Nel saggio di Pia Schmid “Bambini e bambine modello. Pietà infantile e costruzioni di genere nelle raccolte pietiste di vite esemplari” le bambine pie in età moderna sono rappresentate in modo significativo, e riconosciuta una potenziale forza della loro voce. Così come nel contributo di Dorena Caroli “Bambine, bambini e animali parlanti nei racconti di Eduard Uspenskij per l’ultima generazione sovietica”, le bambine protagoniste dei racconti dello scrittore sovietico hanno una voce più forte e un più marcato ruolo sociale.
Diverso, invece, il contributo di Iuri Meda “Non giocate col fuoco. L’infanzia italiana, la ridefinizione dell’identità di genere maschile e la campagna per il disarmo del giocattolo (1946-1956)”. L’autore inquadra il giocattolo nel contesto sociale ed economico che lo ha visto trasformarsi, nel corso del XX secolo, da prodotto artigianale a prodotto industriale all’interno della distribuzione di massa.
Proprio la produzione su vasta scala ne avrebbe consentito la strumentalizzazione ideologica. Emblematico il caso del regime fascista e del contestuale processo di militarizzazione dell’immaginario infantile, nonché l’acquisizione del consenso all’interno della società.
Il fascismo impone il proprio modello di genere fondato sulla virilità, prestanza fisica, attitudine alla lotta autorizzando il gioco della guerra.
L’arma-giocattolo si carica di un forte significato simbolico non solo durante il fascismo e la guerra totale, ma anche in seguito alla disfatta militare.
Nel dopoguerra, si apre il dibattito. A partire dal ’46, la stampa pubblica articoli in cui si stigmatizza la violenza di giochi in voga per bambini. Le prime iniziative nel ’48, promosse dalla Croce rossa italiana giovanile e nel ’49 dall’ Associazione nazionale madri unite per la pace. Le organizzazioni pacifiste femminili tentano la diffusione di un nuovo modello di genere maschile, per uniformare l’infanzia ai nuovi valori democratici e al ripudio della guerra.
Anche in questo caso, la lotta contro le armi giocattolo assume un valore simbolico.
Prese di posizione da parte di organizzazioni con orientamento politico diverso e boicottaggi pure nella scuola, per una “Campagna Santa Lucia senza armi” che si protrarrà fino al ’68, e cartoncini di auguri natalizi con la scritta “non regalate giocattoli di guerra”.Nel ’50, la giornalista Eugenia Garulli intraprende un’agguerrita campagna di stampa per la riconversione dell’industria ludo-bellica, al fine di sensibilizzare i produttori.
Di risposta, le associazioni di categoria difendono gli interessi economici delle ditte italiane. L’Associazione nazionale fabbricanti di giocattoli affida a Emilio Ceretti, fondatore nel 1936 dell’Editrice Giochi, la redazione di un editoriale per il proprio organo di stampa. Il giornalista difende la categoria dei fabbricanti, in quanto avrebbero sviluppato i propri prodotti sulla base della domanda. La sua tesi: non sono le armi giocattolo a indurre alla guerra, ma l’impressione destata dalla guerra.
È ipocrisia credere che i bambini non giochino più con “giocattoli guerreschi” quando, in piena guerra fredda, gli adulti continuano a fare la guerra. Si chiede se forse la campagna non rispondesse più alle esigenze dell’adulto che a quelle dell’infanzia. Inoltre, individuerebbe nell’ostilità verso i giocattoli di guerra un tentativo di rimozione collettiva dell’ influenza inconsciamente esercitata a livello sociale dalla devastante sconfitta subita nella Seconda guerra.
Si tratterebbe, pertanto, di una campagna ideologica indifferente agli studi scientifici che attribuirebbero una naturale presenza di istinto aggressivo nei bambini, sfogato a volte intraprendendo giochi di guerra, ma che costituirebbe un gradino nella normale crescita evolutiva.
Comunque, ancora nel 1957 per evitare la polemica, ditte specializzate, tra le quali la Molgora, nei cataloghi definivano le armi giocattolo prodotti semplicemente “giochi meccanici” oppure “giochi del West”.
Se la ricerca di Iuri Meda ha il merito di considerare la storia del giocattolo, non tanto in sé, quanto come “una concrezione materiale di pratiche sociali e culturali”, viene sottolineata l’assenza di bambini e bambine come soggetti attivi, in cui il gioco si configuri come spazio di destrutturazione e ristrutturazione all’interno di relazioni affettive o immaginate.
In contrasto con la presunta marginalità delle bambine e dei bambini rispetto alla sfera pubblica, i saggi tuttavia dimostrano e confermano che l’infanzia è al centro di preoccupazioni politiche e sociali forti, testimoniate dal tentativo di trasmettere modelli di comportamento e valori integrati in progetti politici di vasta portata. La ricerca ha il merito di aver proposto e saputo affrontare temi non frequentati e sollecitato ulteriori contesti di approfondimento, contribuendo a dare voce a protagonisti rimasti troppo a lungo ai margini della storia. Inoltre, la scelta di indagare la categoria stessa dell’infanzia – variabile a seconda dei contesti disciplinari, geografici, storici, culturali nell’intersezione con il genere – e l’età stessa, considerata come sistema di rapporti di potere, contribuisce a cambiare il modo di leggere la storia.
La storia dell’ infanzia si dimostra pertanto un terreno fluido, nell’ambito di una nuova storia sociale, in grado di amplificare i problemi metodologici della storia dal basso e della storia delle classi subalterne.
Claudia Piccinelli
vedi link: Rssegna libertaria