Rom, questione
di sguardi
Briciole è il nome dato al trimestrale del Cesvot (Centro volontariato Toscana) che raccoglie gli atti dei percorsi formativi svolti dalle associazioni di volontariato attive in Toscana. Il numero 32 (aprile 2012), dal titolo RomAntica cultura, è dedicato alla questione dell’“invisibilità ed esclusione del popolo rom” ed è curato da Valentina Montecchiari, Martina Guerrini e Valeria Venturini.
Gli interessanti contributi raccolti nella pubblicazione sono il frutto di un lavoro collettivo che indaga esperienze e tematiche di notevole rilevanza e attualità. Offrono uno sguardo plurale e articolato che pone interrogativi, suscita dubbi, e allo stesso tempo rappresentano un’opportunità di approfondimento per una formazione interculturale.
Merita un’attenzione particolare il saggio di Martina Guerrini Pratiche di dis-identità. La discriminazione sessista contro le donne romni in una prospettiva anticolonialista. L’autrice propone un rovesciamento di prospettiva dello sguardo rivolto alla donne romni, attingendo a una metodologia comparativa antropologica – già applicata allo studio delle donne migranti – che impone di ri-guardare con occhi più critici anche la nostra società. Qual è lo sguardo con il quale la nostra società considera quella rom? Caratteristiche patriarcali e sessiste esistono solo nella tradizione rom oppure, in qualche misura, persistono anche nella nostra società, che si considera “più emancipata”? O anche quest’ultimo non è forse uno stereotipo? La nostra società italiana sembrerebbe abilissima nel costruire “immaginari” a proprio uso e consumo. Quale rappresentazione ne dà delle identità delle donne romni?
Zingara cartomante e un po’ strega. Girovaga e felice per il mondo. Allo stesso tempo, povera vittima di un arcaico mondo patriarcale violento e misogino.
Il nostro immaginario cristallizza in forme rigide, semplifica e schematizza laddove la complessità, il non definito caratterizzano la quotidianità. Quanto sfugge alle maglie del conosciuto viene ricompattato secondo un’ottica che predilige il controllo dall’alto. Con la presunzione di conoscere la cultura, il popolo rom quando invece ciò che si conosce è la nostra rappresentazione mentale del loro mondo. Ed è ancora più vero per le donne romni, delle quali si crede di conoscere i problemi, i bisogni, le aspirazioni. Ma l’ottica è deformata. Quindi, prevale la visione unidirezionale delle istituzioni e non la realtà variegata, multiforme, sfaccettata e mai definita una volta per tutte del popolo rom e delle romni in particolare. Siamo noi ad aver bisogno di dare loro un’identità circoscritta da assimilare o differenziare a seconda del momento, delle necessità. Così, prima imponiamo la nostra idea della loro identità, ci convinciamo di rispondere alle loro reali necessità, e infine siamo disposti ad assimilarli, a condizione che dimostrino di essere bravi ad accettare le nostre regole di convivenza.
Ancora – si chiede Guerrini – non è il nostro sguardo sessista a prevalere negli elementi discriminatori verso le donne romni? Le donne sono le uniche alle quali le istituzioni chiedono conto dell’educazione dei figli, e le si condanna se li portano con loro quando vanno a chiedere l’elemosina, perché ritenute responsabili di coinvolgerli in attività degradanti. Forse la nostra società sta mostrando interesse per la crescente sofferenza di minori in situazioni di disagio nelle nostre famiglie, e troppo spesso sottoposti a violenza? Oppure, le istituzioni stanno facendo abbastanza per contrastare la persistenza di stereotipi sessisti nell’ambito dell’educazione scolastica? Solo le donne romni sono vittime di violenza domestica e dell’accettazione sociale di tale violenza? Quali conclusioni si possono trarre riguardo alle nostre donne italiane appartenenti alla società cosiddetta emancipata? Sono magari più fortunate, con i massacri quotidiani perpetrati a loro danno dai loro stessi mariti, compagni, conviventi? Sono solo alcuni interrogativi sollevati da Martina Guerrini. L’invito è quello di uscire dai panni delle “emancipatrici delle altre”, ri-orientare lo sguardo giudicante in un’ottica che osservi il mondo rom senza occhi da gagè e, soprattutto, includa e consideri “la voce delle altre e degli altri” e ne accetti posizioni antagoniste. Un esempio? Accettare il rifiuto, da parte del popolo rom, di prender parte alla guerra gagè delle identità. Allora, oltre allo sguardo bisognerà riorientare anche l’itinerario del viaggio.
La provocazione di Marcello Palagi espressa nel titolo del suo saggio Volete un progetto? Non fate progetti! sembra calzare a pennello. Se i gagè, le istituzioni, i tribunali, le forze dell’ordine, l’assistenza sociale, le fondazioni, il volontariato insistono nel decidere al posto loro, significa che rom e sinti sono presi in considerazione solo come oggetto di provvedimento, rivolto a chi è giudicato come un “caso da risolvere”, un problema di ordine pubblico che riguarda un’umanità da contenere. Sì, perché rom e sinti sono considerati fermi allo stadio infantile e inetto, incapaci di decidere in modo autonomo. Una volta relegati a una condizione di genetica inferiorità è più facile instaurare rapporti di potere. Così si decide a tavolino una soluzione abitativa, senza averli interpellati in base alle loro reali esigenze. Si impongono modelli di vita gagè. Vengono sottratti i figli ai loro genitori in nome della presunta tutela dei diritti dei minori, senza contemplare il diritto dei minori di rimanere con i propri genitori.
Si stipulano patti di legalità legittimando una legalità diversa, cucita su misura. E poi ci si indigna se rom e sinti continuano a vivere come se il patto non esistesse. Ma è un patto non patteggiato, piovuto dall’alto, declamato dai rappresentanti delle istituzioni, che dettano regole, magari nemmeno capite dagli interessati. Prevalgono l’imposizione, la repressione. Confronto alla pari, mediazione, dialogo sono i grandi assenti. Eppure rom e sinti hanno una funzione politica importante: tengono allarmata l’opinione pubblica, che poi si coalizza per sostenere programmi politici antidemocratici. Non ci sono, infatti, controindicazioni a perseguitare i rom. E oggi il razzismo mostra la sua duplice faccia. La propaganda che fa leva sull’immagine dello straniero percepito come pericoloso, deviante, criminale influenza e autoalimenta sia il razzismo popolare, sia quello istituzionale. A sua volta, si verifica una ricaduta nelle modalità di intervento dell’assistenza sociale, delle amministrazioni pubbliche e si condizionano altresì le valutazioni dei giudici, con grande amplificazione anche da parte dei mass media. Allora, cosa rimane da fare, secondo Marcello Palagi? Niente! Se si vuole fare qualcosa di buono, non si facciano progetti. Nessun progetto per rom e sinti, quindi, ma difesa del loro diritto a decidere da soli di se stessi, a scegliere per se stessi. Un valido progetto? Essere solidali e rispettosi dei loro diritti fondamentali. A partire dal rispetto del loro diritto a una visione minoritaria, originale del mondo. Visione, in un certo senso, profetica e critica del presente.
Lo stesso giornalismo cova dentro di sé il germe del razzismo e della discriminazione. Lo sottolinea Lorenzo Guadagnucci in Giornalisti contro il razzismo. Come distruggere lo stereotipo negativo dei rom e degli immigrati. La questione immigrazione nelle varie redazioni – è risaputo – viene affidata ai cronisti di nera, ma i dati Istat confermano che non c’è correlazione tra i fatti reali, la criminalità in atto e il rilievo attribuito. L’enfasi sulla cronaca nera, il linguaggio usato negli articoli, le fonti considerate hanno portato alla falsa emergenza sicurezza. L’angolo visuale dei media è distorto. La discriminazione parte dall’uso del linguaggio. Al riguardo, nel 2008 il gruppo dei Giornalisti contro il razzismo ha messo in campo una proposta di autoregolamentazione. Al bando le parole tossiche. Clandestino. Perché evoca sospetto e la condizione di fuorilegge. Nomade. Si riferisce a un inesistente nomadismo, in quanto i rom e i sinti che vivono in Italia sono quasi tutti stanziali. Il termine serve però a giustificare la segregazione di gruppi familiari nei cosiddetti “campi nomadi”. Zingaro. Ha assunto nel tempo un’accezione dispregiativa ed è rifiutato dallo stesso popolo rom.
Extracomunitario. Ha perso la sua originaria connotazione di extra rispetto alla Comunità europea e ora indica persone “extra” rispetto alla comunità maggioritaria, nel senso di “altre”, “escluse” per il colore della pelle o per la condizione di povertà. Ma il termine “extracomunitario” viene forse usato per indicare un cittadino statunitense o svizzero? Oppure per designare altre persone di pelle nera, ma famose nell’ambito del calcio, della moda o dello spettacolo? La Carta di Roma è un documento professionale importante per un uso del linguaggio rispettoso e non discriminatorio, pertanto tenuto a essere rispettato da tutti i giornalisti iscritti all’albo. Ma non basta. Guadagnucci sottolinea che anche ognuno di noi può dare un contributo rilevante. In che modo? Accogliendo l’invito a depurare l’immaginario comune dal lessico velenoso. Estirpare non solo nei discorsi pubblici, ma anche nell’uso quotidiano tutti quei termini impregnati di stereotipi mistificanti. Non solo. Serve una partecipazione ancor più diretta dei cittadini. Lettere al direttore, esposti all’ordine dei giornalisti, fino alla denuncia alla magistratura dei casi più gravi di violazione della deontologia professionale. Sono prese di posizione volte a contrastare queste forme di discriminazione, proprio a partire da un uso pubblico non stereotipato e stigmatizzante del linguaggio.
Claudia Piccinelli
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