Donne dietro le sbarre/Più consapevoli che vittime. E ribelli
La ricerca qualitativa (Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere, Ediesse, Roma, 2014, pp. 315, € 16,00), condotta nel 2013 da Susanna Ronconi, formatrice, Grazia Zuffa, psicologa, in collaborazione con la Società della Ragione, nei carceri di Firenze Sollicciano, Pisa e Empoli, raccoglie e analizza interviste a donne detenute – in gran parte tra i 26 e 35 anni – personale educativo e agenti di polizia penitenziaria. La finalità: contenere la sofferenza e prevenire gesti di autolesionismo e suicidi, con attenzione alla differenza femminile in un sistema carcerario pensato e strutturato su un modello maschile.
Lontano da stereotipi, l’analisi rivela che le donne si dimostrano più consapevoli che vittime, sono le prime nella ribellione verso l’autorità della pena. Avanzano richieste di forme alternative alla carcerazione, dimostrando l’estraneità della donna alle strutture di coercizione. Come sottolinea Susanna Ronconi, la ricerca rivela l’inganno che attribuisce una minorazione della donna carcerata a “deficit del femminile”, anziché addebitarla all’istituzione totale, che di questa minorazione è costante riproduttrice.
Le narrazioni biografiche denunciano la dimensione della spersonalizzazione, del corpo percepito come oggetto di controllo, e una forte dose di sofferenza aggiuntiva per l’attesa protratta senza risposte alle richieste, seguita da una percezione di impotenza e abbandono.
Soprattutto dalle biografie materne si coglie l’ambivalenza dell’essere madre in carcere: i primi ad essere sacrificati sono gli affetti familiari, i figli. La madre carcerata si sente oppressa da ulteriori sensi di colpa per il ruolo di figlia, costretta a dover demandare a madri-nonne l’azione di cura dei propri figli.
Ma essere madre e figlia carcerata può voler dire, allo stesso tempo, avvertire un debito di cura nei confronti della propria madre malata. Inoltre, sapere che le relazioni a casa vengono intessute dalla donna e la sua assenza può determinare rottura definitiva degli equilibri, già precari, genera un senso di perdita del ruolo affettivo.
Tuttavia, Grazia Zuffa vede nella rete familiare delle “madri che curano le madri” un’altra faccia del materno, non ancora valorizzata. Così come andrebbe ripreso il lavoro sulla retorica pervasiva e pericolosa della funzione riabilitativa del carcere: il maschio deve diventare un “onesto cittadino e lavoratore”, la donna tornare a essere o diventare una “buona madre” plasmata su un modello liquido, confuso e molteplice. Tuttavia le donne recluse – solo il 4% di tutta la popolazione carceraria – diventano un cristallo attraverso il quale la società cerca di ristabilire una norma. La maternità incarna ancora oggi la “onestà e virtù” femminile: con il reato si tradisce la maternità, e la perdita dei figli ne è la punizione. Come suggerisce la riflessione di Maria Luisa Boccia, teorica della differenza, – riportata nella conversazione a tre nel settimo capitolo – bisognerebbe rinnovare anche lo sguardo sulla maternità, prestando attenzione a come è veicolata attraverso il carcere. Costruire un nuovo discorso sulla maternità sarebbe fondamentale non solo per le donne detenute, ma per tutte le donne.
Paradossi, ostacoli burocratici rappresentano inoltre gli impedimenti di un’istituzione totale che dichiara di puntare alla riabilitazione. Al contrario, invece, ne replica le diseguaglianze sociali, soprattutto quando non fornisce adeguate risposte e beni necessari per la vita quotidiana. Smarrimento, solitudine, scoramento, rabbia, dolore trovano lenimento nel suicidio o sfogo in gesti autolesivi. Al riguardo, uno studio nel carcere di Padova, riportato sulla rivista “Nuovi orizzonti” e i dati di questa ricerca nei carceri toscani riferiscono di un maggior rischio di suicidio per le donne, e minori atti di autolesionismo da taglio, da ricondurre a una maggior cura e rispetto del proprio corpo. Ma emerge altresì che le donne sanno mettere in atto strategie specifiche di resilienza, orientate a coltivare il domani. Comportamenti di protezione dalla sofferenza si collocano in un processo personale fatto di riconoscimento, valorizzazione, attivazione di risorse anche pregresse, per far fronte al cambiamento. Così le donne scoprono una loro identità percepita come molteplice e in mutamento, capace di reagire all’immobilismo consolidato del carcere.
Tra carcerate, le donne suppliscono alle figure interne con il compito di sostegno personale, in prevalenza nella dimensione dell’ascolto. Ricercano solidarietà in relazioni individuali scelte per affinità e rispetto, inclini alla dimensione intima e affettiva in grado di lenire solitudini, liberare vissuti, portare all’autoriflessione. Ma per andare oltre e approdare al riconoscimento di competenze e valore: Ognuna di loro mi ha insegnato tanto, oppure: Era la persona che quando la vedevo mi dimenticavo di tutto, mi sentivo a casa e a mio agio. Ancora: L’unica vera amica, per me lei è una sorella, un’amica, una confidente, lei sopporta me, io sopporto lei, si sta facendo progetti per il fuori.
I piccoli gesti quotidiani di cura mettono in moto un circolo virtuoso che rinforza autostima e autoefficacia: Se una mattina ti svegli e la tua compagna di cella dice – lo faccio io il caffè – ti senti accudita. È molto importante sentirsi qualcuno; poi automaticamente anche tu fai sentire così l’altra persona.
Riordinare, pulire lo spazio angusto della cella, mettersi il rossetto è cura di sé.
Il rispetto di se stesse rappresenta anche la scoperta di essere cittadine in grado di prendere parola e di partecipare a momenti collettivi che restituiscono senso e autostima, promuovono un riconoscimento sociale: È una gioia sentire dire: – un saluto da tutte le ragazze detenute di Empoli che hanno aderito allo sciopero della fame per il sostegno delle altre – Abbiamo aderito ad uno sciopero della fame dal 26 per cinque giorni perché ascoltiamo Radio Radicale.
Investire bene e promuovere un uso diverso del tempo, sfruttando al massimo le poche risorse offerte e soprattutto producendone di nuove in modo autonomo, rappresentano altre energie di resilienza. Le donne dimostrano di sapersi adattare per dare significato all’esperienza: Ho iniziato a fare il corso di muratura, anche; con altre due mie compagne, di là ci sono cinque uomini. Abbiamo fatto anche la teoria: sicurezza sul lavoro, sicurezza sui cantieri, pari opportunità. Poi a settembre (speriamo di non esserci) si dovrebbe iniziare a ristrutturare la palestra sopra. E di saper valorizzare le proprie competenze in maniera informale: Adesso c’era il teatro, mi sono offerta volontaria per cucire i vestiti da teatro; in cucina sono senza grembiuli, mi sono offerta volontaria per cucire i grembiuli. Che mi invento io se una mia amica mi dice – aggiustami una gonna – gliela riparo.
Il tempo vuoto è tempo di occasioni, tempo di scoperta di inclinazioni e di passioni. Diventa tempo per sé: l’attività fisica, lo sport, la danza impegnano il tempo. Restituiscono al corpo i suoi diritti: esprimersi, percepirsi, curarsi. Insieme a musica, scrittura, lettura: per le donne piaceri intimi e opportunità espressive.
Inoltre, la detenzione è una cesura nel tempo. Ma l’esperienza carceraria può diventare opportunità per ripensare quel passato che si vorrebbe lasciare alle spalle, per ricucire legami interrotti, acquisire maggior consapevolezza anche per immaginare un futuro possibile.
Nei carceri misti, possono germogliare nuove relazioni affettive, anche se a distanza, fatte di occasioni fugaci di incontri, di scrittura o di comunicazione muta e a distanza, dalle finestre: È un panno bianco che o muovi o batti (a,b,c,d) è complicatissimo, io ci ho messo tre giorni ad impararlo perché mi interessava chiacchierare con lui.
Per approfondire i significati dello “sguardo della differenza femminile”, Maria Luisa Boccia pone l’attenzione sull’ambiguità del femminile come terreno della cura e della relazionalità. Se la cura è offerta dalle operatrici e operatori dell’istituzione carceraria, sull’assunto della dipendenza, vulnerabilità, debolezza, non responsabilità, e improntata a precisi modelli adottati nelle istituzioni totali, costruiti per soggetti deboli e vittime, la relazione di cura diventa costitutiva del controllo. Quindi occorre trovare la mediazione giusta tra chi ha bisogno di cura e chi la esercita, per favorire una relazione evolutiva, che accompagni verso l’autonomia.
La ricerca inoltre mette in luce l’opportunità di “attivare la soggettività delle donne detenute per cambiare la quotidianità del carcere”. Una sfida che va oltre il riconoscimento di un diritto. Non si può prescindere da una riflessione sulle pratiche del carcere da parte di chi lo vive: detenute, operatrici, volontarie. Se non c’è consapevolezza soggettiva sulle prassi da mettere in atto, non ci sarà riforma, perché nemmeno la miglior legge saprà cambiare la realtà. Boccia sottolinea che “lo sguardo della differenza” da adottare implica dare spazio alle soggettività, alla presa di parola in prima persona, da parte di detenute e operatrici, e alle loro pratiche. Solo così si potrà dare centralità a un’istanza di liberazione.
Claudia Piccinelli