La sciùra Tognina e la zia Agnese, generazioni di levatrici.
La levatrice è sempre stato un mestiere di donne, perché la nascita riguarda le donne. Un tempo le chiamavano “le comari”, quando l’assistenza alle partorienti si basava solo sulla pratica e l’esperienza tramandata da secoli.
Invece la sciùra Tognina Biloni, classe 1885, di Castelcovati, sposata a Comezzano, è stata tra le prime a fare la scuola per ostetrica, alla clinica Mangiagalli. Ogni giorno, per due anni, andata e ritorno, in sella alla sua bicicletta alle quattro di mattina, da Comezzano a Chiari e poi in treno fino a Milano. Ripercorriamo con il racconto di Agnese Galli le strade della bassa, quando le donne diventavano mamme nelle loro case.
La nonna ripeteva: “Mi piaceva far nascere i bambini”, ma quando ho voluto fare anch’io la scuola a Brescia: “Agnese lasa perder, è un lavoro di grossi sacrifici e di responsabilità e al Comune al ta dà quater palanche”. Ero piccola, suonavano il campanello: “ Cerco la levatrice. Mia moglie ha i dolori”.
Al tempo, tra Comezzano, Cizzago e Cossirano assisteva circa tre parti al giorno. Il nonno diceva dove si trovava e andavano a chiamarla. Con la sua bicicletta nera e il fanale che funzionava- il nonno glielo aggiustava sempre – via da una cascina all’altra, la strada senza asfalto, piena di sassi e di buche. Si faceva sempre accompagnare da qualcuno. Quando i mariti non potevano, andava mio cugino Luciano con la sua bicicletta, perché se succedeva qualcosa, almeno qualcuno poteva avvisare la famiglia. Capitava che quando andavano a prenderla col biròcc, per la fretta di arrivare, il calesse finiva nel fosso e lei arrivava dalla partoriente, immagina in quale condizioni.
I bambini se devono nascere non guardano che tempo che fa! Sotto il sole, nella nebbia oppure se pioveva o nevicava usciva con la sua borsa, e noi bambini: “Dove vai, nonna?” E lei: “Vado a portare il bambino alla signora” Io: “Ma dov’è il bambino?” “E’ qui nella borsa”. E fino a quando siamo cresciuti avevamo sempre creduto che in quella valigetta c’era un bambino!”
Poi ho cominciato anch’io a accompagnare mia nonna alle cascine. Arrivavi e non trovavi niente. Come quella volta, la nonna ha dovuto chiedere alla padrona, la signora Adele, di andare a prendere quel che serviva perché la sua fittavola doveva partorire. Allora è arrivata con le lenzuola, salviette, e anche belle, pannolini di tela con le frangette. Poi serviva una vaschetta grande e due secchi, in uno acqua fredda, nell’altro calda. Perché se il bambino respirava poco, prima si immergeva nell’acqua fredda un attimo, e subito nel secchio dell’acqua calda. Le camere sempre al piano di sopra, enormi, e fredde. Il parto si faceva nel letto. Quando si vedevano i fiori sui vetri per il gelo, mia nonna faceva portare un braciere per avere le mani calde e fare meglio le sue manovre. Io invece facevo portare una rete in cucina così partorivano al caldo. Non voleva niente in camera, via tutti i soprammobili, via quello che non serviva. Sul cassettone mi faceva mettere un lenzuolo bianco per appoggiare i ferri, le garze, le salviette.
Mi diceva : “Cambia le lenzuola, anche se ti dicono che sono pulite”. Tra il materasso e il primo lenzuolo, la tela cerata, poi il lenzuolo e il taccone per assorbire. Quando la donna era pronta mia nonna usava versare l’alcol nel catino smaltato, si dava fuoco e i ferri che c’erano dentro venivano sterilizzati, due forbici, una pinza ad anelli per pinzare un batufolo di cotone se serviva tamponare. Invece, anni dopo, i ferri li sterilizzavo a casa con la bollitura, e li toglievo dalla borsa insieme ai sacchetti sterili comprati in farmacia per mettere la biancheria che dovevi portare, i guanti e due pinze kocher, si chiamano così. Servivano una per fermare il cordone ombelicale dalla parte della mamma e una dalla parte del bambino. Poi veniva tagliato e legato con un elastico piccolo.

La levatrice assisteva al parto a casa perché all’ospedale non venivano accettate se non c’era pericolo per la vita. A volte non ricoveravano neanche una sofferenza fetale. C’erano donne che partorivano in giornata, altre che ti chiamavano al primo dolorino e se era dilatata anche solo di due centimetri da lì non ti spostavi. E dopo il parto, altre due ore perché poteva venire la febbre, dovevi stare attenta se sentivi cattivi odori o c’era un’emorragia o non usciva sangue per niente. Come quella volta, una donna ha perso molto sangue e la nonna ha mandato a chiamare il padrone della cascina -perché erano fittavoli- e serviva un biroccino con il cavallo. Abbiamo caricato la donna sul sedile, vicino alla levatrice. Sono salita anch’io e meno male che le avevo messo addosso due salviette. Bisogna farsi coraggio, avere forza. Non come un’altra levatrice che aveva paura dei parti e si sedeva in fondo al letto a dire il rosario.
Si ascoltava il battito con lo stetoscopio, quello di legno a forma di campana. Il battito bisognava cercarlo sulla pancia, e quando il bambino era podalico sentivi battere verso il basso. E allora chiamavi il medico condotto, il dottor Castigliego per assistere. Il mio primo podalico nel ’61, quando ero alle dipendenze del Comune come levatrice. Mi ha fatto i complimenti perché me la sono cavata da sola.
A casa, le donne le governi di più, e sono più tranquille, e rare le lacerazioni. Non si aveva fretta, il periodo espulsivo era lungo, le si faceva spingere, respiri profondi e spingere verso il basso, e si portava pazienza. Se c’era una piccola lacerazione si mettevano due graffette e sperare che tenevano per cinque o sei giorni. Ci tenevano tanto ad allattare i figli. Si attaccavano al seno dopo dodici ore, e tanta felicità quando li sentivano succhiare. Le donne cercavano lei, la sciùra Tognina. Dava fiducia e si sentivano più protette, insomma più sicure. “ Stai tranquilla, fai come ti dico. Dai, vedrai che quando i dolori sono passati non tornano più”. Al marito che stava dietro la porta: “ E te Nino portega argota de cald”. Lei ascoltava le confidenze delle partorienti, entrava nella loro vita. Raccontavano del marito, lavoratore, ma sempre nei campi. O le preoccupazioni per gli altri figli ancora da crescere. La suocera, le cognate brave, ma anche quelle invidiose, pettegole. Chiedevano consigli anche dopo, per l’allattamento come fare il bagnetto e i modi per crescerlo bene. E lei sapeva tutto, io invece cosa ne sapevo? Ascoltavo e imparavo. E tante volte chiedevo: “perché quella ragazza vive con il bambino in casa dei nonni?” Ancora: “E il figlio era quello del padrone ?”. Ma la nonna Tognina sempre zitta, perché quello che si sente dire non bisogna riportarlo in giro. Al battesimo, dopo otto giorni, la prima ad essere invitata era lei, la levatrice, una persona di rispetto. Sempre elegante, con il suo bel vestito col colletto grande di pizzo, cappotto nero in inverno, altrimenti soprabito grigio con tre bottoni. E le scarpe con mezzo tacchetto, la borsa, bella, sempre la stessa. Al pranzo però non andava perché : “puoarì, andà a mangiaga adòs !”, non voleva togliere il boccone di bocca a nessuno.

Bisognava essere sempre disponibile, tutti dovevano sapere dov’era. Una donna davvero di carità, contentava “le sò malade”, come le chiamava lei. Mi mandava a portare il pollo e il brodo in cascina a quella donna o alla tal altra che dovevano allattare. Da mangiare poco o niente, aspettavano che i mariti prendevano la quindicina, siccome erano fittavoli.
Ha fatto nascere tre generazioni, e anche me. Intanto il nonno Battista girava la polenta. Si è consumata tutta dentro la pignatta e lui raccontava sempre: “Quando ta set nasida te, go brüsat la pulenta”. Da bambina avevo le bambole di legno e mi piaceva rompere la pancia e guardare cosa c’era dentro. Dopo la scuola e l’assistenza domiciliare, l’assunzione in ospedale a Chiari dal ’65 al ’98, come capo sala, capo ostetrica con il professor Curone. Tra un parto e l’altro, da strumentista in sala operatoria, vedere l’utero, le ovaie, il fegato, la milza veri, non solo sui libri o nei manichini! Insomma, una novità! E poi una soddisfazione sapere che la donna dopo l’operazione stava bene! Adesso sono in pensione. Non ho avuto figli, ma nipoti grandi, piccoli e pronipoti mi girano ancora tutti intorno.
Se non sono proprio la mamma, li ho fatti nascere. Sono stata la prima a prenderli in braccio ad aiutarli a piangere e respirare. Tanti mi chiamano zia. Anch’io mi sento la zia di tutti. E non solo la loro.