Questa cosa fuori del comune che andava e veniva come una pendola a ritmo ondulatorio, tramonto e alba, Milano di qua e Brescia di là, era nel 1946 una fila di fragorosi carri bestiame. …dentro, al posto di mucche e vitelli c’era l’ultima generazione degli antichi Longobardi. (da Maria Corti, Cantare nel buio, Bompiani,1991)
Chiari – Milano Milano – Chiari
Olga (Chiari) Partivo dalla stazione di Chiari alle quattro e mezza, nel ’50, con gli operai- muratori. Perché io alle sette dovevo già essere a Milano a servizio da una famiglia di un avvocato. Impiegavo due ore di viaggio. Chiari, Calcio, Romano, Vidalengo, Morengo, Treviglio … Diciotto fermate. Erano vagoni merci, per terra mettevamo i giornali e ci si sedeva sopra. Si prendeva da casa la bul dell’acqua calda per scaldarci e la mantella. Sì perché il cappotto non l’avevo. Il primo cappotto me lo ha regalato la mia padrona siccome era stufa di vedermi sempre arrivare con la bul dell’acqua e la mantellina a spalle. Sul treno, sia all’andata che al ritorno, facevamo lavori a maglia, ho fatto golfini, gonne, vestiti di lana, ma proprio belli !
…una vettura di terza classe. La sua unicità, dovuta alla mancanza di materiale ferroviario, distrutto dalla guerra, la rende ambitissima, se pure è di vecchio tipo coi sedili di legno a due posti e corridoio centrale. (op.cit.)
Più tardi, hanno messo il vagone-passeggeri e i treni erano dei locali. Erano treni per pendolari. Lo prendevo alle sette e dieci il mattino e ripartivo da Milano alle cinque e dieci del pomeriggio e arrivavo a Chiari alle sei e dieci. Nei viaggi a Milano, vedevo anche le mondine che prendevano il treno per andare nelle risaie a Pavia, Novara, Vercelli… La famiglia dove lavoravo abitava vicino alla stazione. Andavo a servizio da un giudice penalista. Quando sono arrivata da questo giudice avevo con me una lettera del Monsignor Prevosto dove c’era scritto che eravamo una famiglia umile e bisognosa, composta da sette persone e che io ero una brava ragazza, a modo e volonterosa. Prima di trovare il lavoro però ho girato per le varie palazzine a chiedere se avevano bisogno di me.Tanto ho camminato che le suole delle ciabatte mi si sono consumate. Sono andata più volte a Milano a cercare lavoro finché l’ho trovato. Per poter andare a lavorare a Milano ho messo a balia mio figlio, mia figlia invece me la teneva mia mamma. Dovevo andare per forza perché non avevo i soldi per pagare Ribola, il salumiere. Avevo un libretto per andare a fare la spesa, e a volte io non pagavo perché non avevo soldi, non perché non volevo. Era un libretto con marcata la spesa giornaliera di quello che compravo, poi alla fine del mese, quando avevo i soldi, pagavo. Quando non li avevo il negoziante mi diceva: ” O paga o non le do più da mangiare “. Sono rimasta da questi Signori Tamburini quarantaquattro anni. Il sabato tornavo a casa a Chiari con i figli dei signori Tamburini perché i bambini volevano venire al paese con me, e poi ritornavamo a Milano il lunedì. Quando nel 1984 è morto mio marito, sono andata ancora dai miei vecchi padroni, che mi hanno ripresa a braccia aperte perché ero brava e una come me – giuro- non sta a me dirlo, ma peccato che mi è morta la mia signora a Roma, altrimenti, le facevo parlare con lei, così le diceva sia per la mia onestà che per tutto.
Iole (Chiari) Io vengo da Fiume, da Piana di Piume. Sono arrivata a Chiari nel ’50 , nel ’54 mi sono sposata e ho avuto subito i figli. Per fortuna che mia suocera mi ha dato un aiuto, così io, dal 1962, sono potuta andare a lavorare a Milano. Sono venuta in Italia con la mia famiglia quando io avevo quindici anni perché la mia mamma doveva fare un intervento molto brutto all’intestino e lì a Trieste – prima si poteva andare a Trieste –l’ avevano già operata. I medici erano riusciti a salvarla con le budella dell’intestino di una pecora. Però dopo questo intervento la mia mamma non stava bene ed era sempre ammalata. E poi c’era Tito…Allora lei ha voluto venire in Italia. Io ero piccolina, avevo nove anni quando è finita la guerra. Mi ricordo che c’erano tanti profughi, tanti sfollati italiani che andavano via per non rimanere sotto Tito. Arrivati in Italia, un giorno ci hanno sistemato nel campo profughi di Brescia. Poi ci hanno trasferito al “Centro di Raccolta Profughi” qui a Chiari, dove c’è il Comune, in Piazza Rocca. Lì c’è ancora la targa.
Comunque, io mi sono sempre data da fare e ho cercato lavoro a Milano. Partivo alle sei di mattina con il treno. Gli uomini prendevano il treno prima, così capitava che sul nostro vagone c’erano quasi solo donne. Tante donne arrivavano in stazione a Chiari da Trenzano, Cossirano, Cizzago, Rudiano. Ma tante arrivavano anche da Passirano, da Capriolo e anche da Cividino. Chi non voleva spendere soldi per la corriera, dal suo paese arrivava in stazione a Chiari in bicicletta e la parcheggiava lì in stazione. Una montagna di biciclette! Ho conosciuto una donna di Antegnate che prendeva il treno a Romano di Lombardia e ci si dava l’appuntamento su una carrozza a una determinata ora. Con lei mi trovavo molto bene a scambiare qualche parola. I treni facevano spesso i ritardi. Così, a volte, capitava che si tornava a casa anche a mezzanotte. Quando non mi vedevano arrivare a casa, mio marito andava in stazione a Chiari a chiedere, e così riusciva a sapere più o meno a che ora arrivava il treno. E per fortuna che c’era mia suocera a casa con i bambini, altrimenti come potevo lasciarli soli fino a quell’ora!
I primi anni sono stati duri perché ero sbattuta un po’ di qua e un po’ di là. Facevo lavori di casa dalle signore, a volte tre ore in una casa, quattro ore in un’altra. Sono andata anche da una professoressa, tre ore al pomeriggio, in via Superga vicino alla stazione. Capitava di andare anche da due o tre famiglie al giorno. Lavavo vasche di roba. Anche le persone ricche, non tutte avevano la lavatrice. Lavavo tutto a mano. E stiravo. Passavo i pavimenti con un grosso peso avvolto in uno strofinaccio e li facevo diventare bei puliti e lucidi. Dopo qualche anno sono andata a servizio in modo stabile dalla famiglia Mosca, una famiglia molto nota e importante. Il padre, Giovanni Mosca, era un vignettista e anche scriveva. Tanti libri ha scritto…tanti tanti! E anche lì…lavare, stirare, pulire pavimenti, far da mangiare, di tutto. Quando è morto il signor Giovanni, nel 1985 – che c’ho qui ancora nel cassetto l’articolo di giornale perché lui era una persona importante, un umorista e giornalista- sono andata dal figlio che sarebbe Maurizio Mosca, il giornalista sportivo. Ho saputo dalla tv che è appena morto anche lui. Mi spiace veramente tanto, era molto simpatico. E andavo anche dall’altro suo fratello che è uno scrittore. Non mi sono mai risparmiata. E dopo trentacinque anni di pendolare tra Chiari -Milano e Milano-Chiari, nel 2007, ho deciso di fermarmi e di andare in pensione.
Anita, detta Gatina (Chiari) A Chiari non c’era lavoro e allora bisognava andare dove il lavoro c’era. Mio padre non ha mai voluto lasciarmi andare in risaia, perché lui diceva che là nelle cascine arrivavano i ragazzi a fare la corte alle forestiere e ogni tanto qualcuna ritornava a casa incinta e quello, poi, non lo si vedeva più.Io avevo conosciuto la cognata di una mia amica che c’ha trovato il lavoro a Milano. Milano ha dato da mangiare a tanta gente, non solo a noi di Chiari, ma anche a quelli di Castelcolvati, Castrezzato, Rudiano e arrivavano quasi tutti a prendere il treno qua alla stazione di Chiari. Partivamo alle cinque di mattina da Chiari e arrivavamo a Porta Vittoria perché lo stabilimentino si trovava in quella zona.
Avevo quasi diciannove anni, nel ’56 e un lavoro di maglieria. Mi è sempre piaciuto: confezione e stiro. Si confezionava la maglia-stoffa, tailleur. Un lavoro molto raffinato. Facevano anche le sfilate. Io mi divertivo molto perché quando non c’era la modella che sfilava, facevano sfilare me. Sono sempre andata volentieri, però era una fatica enorme, perché stare in giro quando serviva fare gli straordinari era molto dura. Ma erano quei pochi soldi che i genitori ti dicevano: “Quelli li tieni te”. Un’ora o due al giorno di straordinario. Al giorno si lavorava otto ore, ma poi diventavano dieci. E a casa i soldi servivano. La mia famiglia ha sempre fatto fatica a tirare avanti. Però c’era mia nonna che lei se la cavava sempre. Fin da quando ero piccola, ho sempre capito che ci si arrangiava. Le donne di casa mi ricordo che erano bravissime a cucinare il gatto, una vera specialità. Bisogna conoscere tutti i trucchi. Lo tenevano per un po’ di tempo sotto la neve, così perdeva il sapore di selvatico. E quando le donne hanno votato per la prima volta il 2 giugno del 1946, hanno fatto una grande festa nel mio cortile. Ma tutte le occasioni erano buone per festeggiare, anche se non eravamo ricchi.
Così appena ho avuto l’età giusta, mi sono data da fare anch’io. Volevo guadagnare qualcosa. Ma dopo due o tre anni di lavoro vedo che la paga è sempre quella. Un giorno ci sediamo tutte a mangiare, perché si stava là a mangiare, no?, prendevi la schiseta (contenitore) con dentro il pranzo e la facevi scaldare. E una incomincia: “Qua il lavoro è tanto, non ci aumentano mai la paga, niente”. Non c’erano ancora i sindacati come adesso. “Cosa facciamo? Facciamo sciopero?”. “Facciamo sciopero!”. Allora lui, il padrone, all’ una e mezza veniva ad aprire i cancelli dello stabilimento. “Entrate?” ” No. oggi noi non entriamo!! Perché noi vogliamo l’aumento! Sono tanti anni che siamo qua e lei non ci ha mai aumentato la paga!”. “Adesso incominciate il lavoro, poi vediamo quello che possiamo fare”. Indovina chi va a parlamentare ? Io e una veneta, ricordo ancora il suo nome, Flora. Alla fine, il padrone ci ha dato l’aumento. Andiamo a ritirare la busta. Guardiamo: cinque lire ci aveva aumentato. Una miseria.
Ho sempre mantenuto buoni rapporti con i miei datori di lavoro. Quando mi sono sposata sono venuti perfino a spose. E anche quando è nata mia figlia Fiorella sono venuti al battesimo. Ma dopo mi sono licenziata. Sono andata al sindacato per vedere se le marchette erano tutte a posto. Alla fine mi hanno dato la liquidazione: in cinque anni di lavoro ho preso trentamila lire, che li ho spesi per portare mia sorella al mare.
Dall’Abruzzo a Milano…
Maria (Chiari). Io dopo la guerra ho sempre lavorato, fin da quando avevo quattordic’ anni. Sono abruzzese e mi sono trasferita a Milano. In una ditta facevo i reggiseni tant’è vero che io li compro ancora uguali a quelli che facevo io. Li trovo a Chiari, al mercato, che solo un banco ce l’ha. Facevo le mie sei o sette ore e tornavo a casa alle cinque di sera e dovevo ricominciare a far da mangiare, a pulire, a stirare perché avevo la Katia che era piccolina e dovevo fare tutto io. Poi mi sono trasferita a Castrezzato e pure quando stavo qui ho cominciato a fare reggiseni. Lavoravo in casa, però dovevo andare sempre a prenderli e a riportarli nei pacchi che erano tanti e pesavano molto e io non ce la facevo.
…e da Castrezzato a Chiari in pullman …da Chiari a Milano in treno e ritorno
E così ho lasciato quel lavoro e sono ritornata a Milano in un locale, a fare le frittate. Quindi ho fatto per sette anni la pendolare. Da Castrezzato a Chiari col pullman e da Chiari a Milano in treno e ritorno. Sette anni andata e ritorno. In treno giocavamo a carte. Ho imparato in treno a giocare a carte perché in vita mia non avevo mai giocato. Facevamo sempre la scopa. Il bello è che io non capivo il dialetto bresciano e non lo capisco nemmeno adesso. Quando parlano in bresciano capisco una cosa per un’altra. E mia figlia : “Mamma, ma tu rispondi tutto al contrario. Quando devi dire “no” dici “sì”…”. Così a volte ci si fraintendeva! Non sono mai riuscita a imparare il bresciano. In questo posto dove lavoravo, mi avevano chiesto di cucinare i piatti che sapevo fare io, frittate, polpette, cose veloci che mi riuscivano bene e i miei datori di lavoro erano contenti. Doveva essere tutto pronto prima di mezzogiorno. Loro mi procuravano prosciutto, sottilette, quello che mi serviva. E a mezzogiorno passavano a ritirare il pranzo che avevo preparato e lo portavano ai clienti. Il bar è come se avesse avuto una cucina. Io ero sopra e loro erano sotto. Mi sono trovata proprio bene perché sono sempre stata rispettata da tutti. E me ne sono andata io, perché loro non mi avrebbero mai licenziato.
…a Milano a fare la portinaia
Dopo sette anni di pendolare, trent’anni fa ho deciso di ritornare ad abitare a Milano in via Zuretti e ho preso ‘na portineria, ho fatto per dieci anni la custode. Perché ormai c’avevo soltanto la Katia che era piccolina. Stavo a casa, facendo la custode la ragazza era a casa con me. Andava a scuola, tornava… In portineria facevo le mie pulizie, stavo attenta a quelli che entravano, che uscivano. Quando loro andavano in ferie, io c’avevo le chiavi di tutti. E se dovevo andare da qualche parte, chiudevo. C’ avevo la portafinestra e la macchina da cucire. Io lavoravo tutto il giorno sulla macchina a cucire. Per me è stato un lavoro calmo. Una volta però è scoppiata la caldaia del condominio. Era verso l’una, le due di notte e c’era un signore sopra che rientrava a quell’ora e ha sentito proprio lo scoppio e mi ha chiamata. Sono uscita, ma da stupida, ho preso un secchio d’acqua e l’ho buttato sopra la caldaia. Come l’ho buttato, la forza del fuoco m’ ha bruciato le braccia e m’ ha fatto cadere e ho fatto quattro o cinque scalini a rotoloni. Dopo mi hanno portato all’ospedale. Per fortuna il fuoco non m’ha preso la faccia!
Una sera mi è capitato anche di far scappare i ladri, però non ho chiamato nemmeno mio marito perché lui non voleva che io andassi per le scale. Ma io non ho paura, dico la verità. Non ho paura di niente! Lui dormiva, non c’era nessuno e ho sentito il rumore della porta perché quando rientravano i signori, la porta la lasciano e sbatte da sola, invece i ladri per non farla sbattere, la porta l’hanno accompagnata. “Eh, allora questi qua, -mi sono detta,- non sono i padroni di casa “. Mi sono alzata, in pigiama e scalza sono scesa per le scale. C’ avevano la cosa di porco -come si chiama?- ah sì il piede di porco, e stavano scassando la porta. Avevano preso l’ascensore. Comunque sapevano dove schiacciare il bottone. Dopo ho telefonato al padrone, è tornato a casa per vedere. La porta era un po’ rovinata, però i ladri li ho fatti scappare. Avevo le chiavi di tutti e dieci gli appartamenti perché annaffiavo i fiori sul balcone quando i signori non c’erano. E affidavano tutto a me. Durante la giornata facevo dei lavoretti con la mia macchina da cucire e quindi quando avevano bisogno di qualcosa portavano tutto a Maria. Ho fatto addirittura un vestitino alla Chiesa – faceva così di cognome- che le hanno rapito il fratello che dopo è riuscito a scappare. E’ una cosa che è successa tanti anni fa. Eh, a quella lì ho fatto un vestitino davvero elegante. Faceva la ballerina al Duomo. C’ho fatto il vestitino e ha preso il premio. Asesso è in America, lei.
definitivamente a Chiari
Quando si sono sposate le mie figlie, prima l’Antonella, dopo si è sposata pure Katia – hanno sposato due bresciani- ho deciso di lasciare Milano e di venire ad abitare qui a Chiari. Nel frattempo, la mia famiglia è diventata francese, giapponese, indiana, di tutte le razze. Mio fratello ha sposato non una, ma due francesi, non insieme, s’intende: si è sposato due volte. Mio nipote ha sposato una giapponese. C’ho la nipotina indiana. C’ ho una nipotina giapponese. Dopo c’ho cognata napoletana. Ho avuto anche un cognato siciliano. Ah, un’altra di Milano. Però io, perlomeno, sono sempre andata d’accordo con tutti. Adesso c’ho ottant’anni anni e quindi la memoria mi sta andando, non ci posso far niente, ma alla mia età me la cavo ancora bene, a sistemare la mia casa. Vado ancora a stirare tre volte alla settimana, qui dalla mia vicina. I signori di Milano, miei vicini, mi chiamano ancora e mi dicono: “Maria quando vieni a trovarci? ” . Io ci sono andata due o tre volte, non di più perché adesso non ce la faccio a prendere il treno, la metro, andare a destra, a sinistra, no. Adesso preferisco stare a casa. Ma quando ho comprato la casa qui a Chiari ho detto ai miei figli: “Io vengo al vostro paese, ma non troppo vicino, perché io non voglio intromettermi per nessuno motivo”. I miei figli e i nipoti mi vengono spesso a trovare. Stamattina mi ha telefonato Katia, ma mi ha detto che non sarebbe passata perché sapeva che venivate voi e non voleva disturbare. Adesso c’ha una bambina indiana. E’ troppo bella. E quant’è buona. Però non sta mai ferma, balla, balla, balla sempre!