Parola di
fisarmonicista
“Questo libro che racconta la vita di Jovica Jovic non è scritto per i moralisti, è invece per chi è disposto a contemplare e ad accogliere il valore della fragilità umana, per chi capisce che cos’è l’umanità e la rispetta in tutte le sue manifestazioni”. Così Moni Ovadia mentre dà parola, insieme a Marco Rovelli, alla narrazione della vita particolare di Jovica Jovic
(Moni Ovadia, Marco Rovelli, La meravigliosa vita di Jovica Jovic, Feltrinelli, Milano 2013, pagg. 187, € 15,00). Un’esistenza fuori dalle logiche omologanti di quella cultura che continua a farsi carico del pesante “fardello dell’uomo bianco”, presunta depositaria di una missione civilizzatrice ancora da compiere.
Un libro nato dall’incontro di amici intorno a un tavolo di una trattoria di campagna. Condividono il talento per la musica e una visione del mondo che intende contrastare le gabbie di un’ottica ristretta, deformante, miope, discriminante che pesa ancora troppo, soprattutto sulle culture minoritarie, escludendo altri mondi possibili.
“Io sono nato in un bosco”, dice Jovica. “Sono stato partorito da una zingara, io. Sono colpevole. Non ho mai avuto la mia terra. E non si sa da dove vengo e dove vado. Per questo tutti ci disprezzano, perché siamo senza terra”. Ancora: “Io vi ho raccontato tutto di me. Adesso voi dovete scrivere un libro sulla mia vita. Non ho mai scritto un libro, non ho mai pensato di poter scrivere…” Si convince: “E poi a voi vi ascoltano. Se lo scrivete voi questo libro, tutti sapranno che cosa vuol dire essere rom. Sapranno che è anche bello essere rom”.
Una vita inedita, capace di suscitare meraviglia per l’intensità, il gusto e la forza, il coraggio, la tenacia con la quale Jovica sceglie di viverla. Con un bel gesto empatico, gli autori intrecciano parole, frammenti di lettere, favole, profonde riflessioni, ricordi suscitati da vecchie fotografie, dando origine al racconto di una vita che va oltre la dimensione individuale, per abbracciare un più ampio scenario di un mondo “altro”, sfaccettato, complesso, avventuroso, spesso tragico, a volte inafferrabile. Viene restituito un genuino e autentico mosaico corale di tradizioni mai uguali, perché “le diversità tra i rom dipendono da dove sono cresciuti”. Ma tutti accomunati dalla parentela e dalla lingua romanes. Non riconosciuta tra le lingue minoritarie, sopravvive ai margini portandosi addosso i segni di una cultura alla quale non è stato concesso mettere radici.

Jovica è ultimo anello di una catena secolare di musicisti. Una vita con la musica. La musica dentro la vita, si potrebbe dire. Le armi di famiglia, strumenti a corda e la voce: “Un vero cantante deve saper spegnere le fiammelle della lampada”. Il padre Dusan suonava violino e contrabbasso e ha fatto il partigiano. Il bisnonno è morto a centosei anni con il violino in mano e vestito a festa. “La musica tzigana si suona in maniera diversa: non con le note, ma con il cuore”. Ma poi arriva la fisarmonica, e “per avere una fisarmonica, mangiavano la crusca!”. Jovica la imbraccerà presto. A tredici anni avrà già guadagnato il rispetto dei suoi parenti grandi musicisti, per saper suonare i Kolo, la musica delle danze ai matrimoni. Dopo dirà: “C’è forse un modo più nobile di guadagnarsi la vita che offrire la tua musica a chi vuole ascoltarla accettando in cambio da lui quello che liberamente si sente di darti? No, io credo che non c’è”. Nei locali di tutta Europa, suonerà i bottoni della sua nuova Dallapè comprata a Stradella nel 1971. Fidata, inseparabile perché “noi fisarmoniche conosciamo le parole dei poeti”.
Ma il passaporto vero per il mondo, il mestiere di vivere lo apprenderà fin da bambino nell’ascolto religioso delle parole del nonno Mikailo, vecchio e saggio: “La saggezza no: quella dovete cercarla da soli”. Parole da imprimere in testa come un testamento. “Più tardi capii che essere giudicati senza essere conosciuti era il destino secolare del popolo rom”. Così la solidarietà immediata e naturale verso chi dice di essere perseguitato, calunniato, infangato, non creduto diventa la chiave privilegiata per leggere la realtà.
L’intreccio di sette lettere di Jovica rivolte ai lettori, storie cantate che spaziano tra genti diverse del suo popolo, l’abilità affabulatoria e intrigante e la persuasione della parola ci restituiscono lo spirito resiliente del popolo rom. Uno spirito solido, coraggioso, energico e vitale, mai disperato, perseverante e capace di resistere alle avversità e di uscirne rafforzato. Uno spirito che intende resistere all’omologazione.
Nella terra serba ortodossa che lo ha accolto al mondo, la madre Radmila e il padre Dusan si guadagnano verso le altre famiglie quel rispetto fatto di gratitudine che sarebbe durato tutta la vita. E viene trasmesso al piccolo Jovica dalla madre, guardata con gli occhi di bambino innamorato, capace di cogliere la destrezza, la sapienza di Radmila nell’improvvisare tavole imbandite per ospiti inattesi, sempre graditi. Il cibo, dono dell’accoglienza, condivisione e ospitalità.
Nella Kris Romanì, il valore della sincerità. Corte di giustizia del mondo rom, è considerata “giusta” non perché imposta dall’autorità dello stato, ma chi deve essere sottoposto al suo giudizio ne riconosce la saggezza, l’equilibrio, la fama di uomini giusti capaci di giudicare con sapienza. Accettare il giudizio della Kris, riconoscere la propria colpa in modo sincero, significa riguadagnarsi la dignità perduta.
Le parole di Jovica invitano inoltre a cogliere il senso profondo della famiglia allargata: “Ricco è chi ha più figli”. E ancora: “Ognuno sente di appartenere all’altro”. Il racconto si dipana sul significato della verginità e degli ottanta ducati di dote per sposare Angelina. Parole per capire, astenendoci dal giudicare anche le croci che segnano questo popolo. Come quella del furto: “Nessuno vuole rubare, se ha un’altra possibilità”. Spiega: “Povero è il rom al quale non entra nessuno in casa, e non si mangia un piatto in casa sua, e non è invitato da nessuna parte, né ai matrimoni, né alle feste, a niente. Quello è povero. Quello che non ha una casa, ma solo una tenda, che non ha niente, però è generoso e ospitale, e vanno tanti a frequentare la sua tenda, quello è ricco. Questa è la differenza di ricchezza tra i rom”. La ricchezza sta nel carattere, nell’onestà, nella parola mantenuta, nel metterci la faccia.
Le parti narrative si intersecano con le riflessioni di Moni. Ci riporta ai nostri metri di giudizio e sollecita un decentramento di prospettiva. L’ipocrisia della nostra cultura abolisce la forza logica ed etica dei contesti. Il furto al fisco reca danni deleteri non più sopportabili dalla collettività. Derubare il concittadino è classificato tra i comportamenti veniali. Ancora: “Quali metri di giudizio abbiamo per capire chi chiede l’elemosina?” Così, parlare di culture “altre” consente di riportare l’attenzione sulla nostra cultura guardandola con la lente di ingrandimento per svelarne le ipocrisie.
Anche Marco, in veste di insegnante, riconduce il discorso nella quotidianità: la maglietta della Juventus, indossata da uno studente, con scritto dietro Pirlo, calciatore di origini sinte o le considerazioni sulle abilità di un altro grande calciatore svedese di origini rom, uno dei più completi attaccanti di talento. Ogni occasione è proficua per aprire spiragli sul mondo rom. Ma l’elenco potrebbe continuare annoverando nomi di personaggi noti e altrettanto apprezzati, per capire quanto i nostri pregiudizi siano stigmatizzanti. Circostanze propizie per intraprendere la storia di questi popoli stanziali indo-ariani, ma costretti al nomadismo a più ondate migratorie. Un popolo che ha conosciuto lo sterminio nei lager. E proprio ad Auschwitz, madre e padre di Jovica sono statti deportati.
Un popolo che non ha mai dichiarato guerra a nessuno, ma che dalle guerre si trova travolto, perseguitato, torturato. Come nelle guerre balcaniche, con la cancellazione della Jugoslavia dalla carta geografica: “Io non capivo e dicevo che non dovevo scappare, non avevo nemici”. Ancora oggi in Italia, Jovica con la sua famiglia sta combattendo un’altra guerra. Sgomberi. Documenti regolari che scadono. Impossibilità per lui di un ritorno in Serbia a salutare il padre morente. Impronte digitali e denuncia per detenzione illegale di armi: due cacciaviti. Decreto di espulsione. Permesso di soggiorno provvisorio per motivi umanitari. Presto scaduto. Di nuovo straniero illegale. Il musicista che non ha ancora una patria ha affiancato artisti come Piero Pelù, Moni Ovadia, Dario Fo, suonato a Milano al “Binario 21” della stazione e in tournée con il suo gruppo I Muzikanti. Oggi è maestro di fisarmonica, con metodo a orecchio, proprio come si conviene a una cultura che si basa su una trasmissione orale. Ma il suo non è ancora riconosciuto come un lavoro.
Jovica nella sua ultima lettera si fa portavoce del suo popolo. Cosa desideriamo? Documenti in regola, terra a pagamento per costruire casette e vivere insieme alla famiglia allargata. E un lavoro. Una vita normale. È tutto.
Così, le parole in musica composte dal padre Dusan ad Auschwitz, ritrovate da Jovica dopo la sua morte, suonano ancora come un monito per una società che voglia considerarsi civile: Na bi strena men – Non dimenticateci.
Claudia Piccinelli
Jovica, Moni e Marco sono tre amici di “A” (e miei personali). Con Jovica da anni mi capita di partecipare a iniziative pubbliche, spesso nelle scuole, in cui io presento il nostro dvd sullo sterminio nazista degli zingari e lui, spesso con altri, suona la fisarmonica (e come la suona!). Viaggi, lunghe chiacchierate, conoscenza reciproca: una storia che continua.
Di Moni mi piace ricordare, tra le altre cose, la comune partecipazione, tanti anni fa, a un’iniziativa pubblica in occasione del giorno della memoria, promossa dal e al Teatro Parenti, di Milano, da Andree Ruth Shammah. Io ero stato chiamato come anarchico per ricordare i compagni nostri passati per il camino. Nei pochi minuti previsti, io ricordai appunto la presenza anarchica anche nei lager nazisti, ma preferii utilizzare il “mio” tempo per ricordare chi lo sterminio l’aveva subito come conseguenza non di una personale scelta politica (come, tra i tanti “politici”, gli anarchici) ma i rom e i sinti che – unici insieme agli ebrei – furono sterminati su basi “razziali”. E Moni, che suonò dopo le mie parole, ad esse si unì sottolineando come nel suo gruppo ci fosse uno zingaro.
E anche Marco, prima per il cd dei “Les anarchistes” e poi con i suoi volumi di denuncia sociale (lavoro nero, immigrati, ecc.), ha trovato spazio sulla nostra rivista più volte in questi anni.
Ecco perché questo libro a sei mani di/su Jovica lo sentiamo molto come (anche) una nostra storia. Come tutte le storie di persecuzione e di emarginazione.
Paolo Finzivedi link: Rassegna libertaria