Giovanna, classe 1941, racconta la sua Africa.
Sono partita per la Nigeria nel ’71. Era appena finita la guerra civile col Biafra. Mio marito Claudio voleva andarci per lavoro e io non mi sono tirata indietro. A Lagos State sono arrivata in aereo. Che impressione il terminal, un capannone lungo, di lamiere. Sembrava essere in una giungla di asfalto. Dopo diciotto mesi era già ampliato, raddoppiato e si cominciava a sfruttare il petrolio. La casa ce l’hanno assegnata i datori di lavoro
I primi tempi lavoravo all’uncinetto e cucivo i vestiti per le mogli dei proprietari delle fabbriche.
Lui lavorava nel tessile, alla “Kay-Industria”, con reparti di tintoria, ricamifici e anche macchine circolari per la maglina, portate da Brescia. I filati arrivavano dall’ Egitto per fare tessuti di cotone da vendere sul mercato africano. Noi donne stavamo in casa. C’era Zaira la mia vicina clarense e le varesine, e una belga sposata con un nigeriano. I cinesi invece abitavano più avanti. A pensarci, mai viste donne cinesi, invece uomini tanti, e giocavano molto d’azzardo. Mi è sempre piaciuto fare la sarta. Non ce n’erano di sarte in giro. Così i primi tempi cucivo i vestiti alle donne indiane, le mogli dei proprietari delle fabbriche. Io dovevo abbinare il top o una camicetta alla parte sotto del sari, oppure volevano dei pantaloni con la casacca e alla fine si coprivano la spalla con il resto del tessuto. Mi ero fatta un bel giro di clienti. Un’ indonesiana che lavorava all’Ambasciata di Giava, donne greche e le italiane. Mi cercavano, erano contente. Le indiane quando venivano a farti visita ti portavano le torte fatte con i petali di rose. La macchina da cucire me l’hanno data i capi, vecchia, a pedali, ma funzionava eccome. Dopo ho comprato una Bernina ultimo modello. Lavoravo anche a maglia, all’uncinetto, copriletti, tovaglie, centri ricamati, e una volta all’anno li vendevamo all’ambasciata italiana a Vittoria Island, un’isola di Lagos. I primi anni facevamo fatica a fare la spesa, siccome erano appena usciti dalla guerra del Biafra, e c’erano ancora chiuse le frontiere, bloccate le importazioni, pieno di militari. Poi in due o tre con la macchina della ditta andavamo a fare compere. C’è sempre stato un po’ di contrabbando. Pasta, olio, pelati per gli europei si trovavano sempre. Tutto molto caro, pagavamo con le sterline nigeriane, nel ’73 invece è arrivata la naira col kobo come centesimo.
Ho cambiato cinque case.
Se cambiavi lavoro o il proprietario trasferiva la sua iarda, ti dava un’altra casa. Le prime due a Ikeja, poi ad Apapa, e dopo ancora a Ikeja, con un bel parco dove ci potevi girare in macchina. E che spaventi ! Quella volta c’era un cobra-nero lungo più di due metri, nascosto dentro la palma. L’ha visto la mami Cecilia. Abbiamo dovuto dare fuoco alla pianta per liberarcene. Adesso la vecchia casa l’hanno abbattuta e al suo posto c’è un condominio. Me l’ ha detto mio figlio Fabio che è ritornato a vedere la casa di quando era bambino. Da due anni è ritornato in Nigeria, stanno costruendo case, strade, grattacieli come funghi, nella zona a nord di Ilorin. Se andavi a Lagos, allora era la capitale della Nigeria, per fare 25 Km stavi in giro una giornata. La città su tre isole e solo due ponti, un traffico…! Addirittura nel ’77 avevano messo pari o dispari con le macchine, e ancora oggi è così. La ditta italiana Impregilo ha fatto il terzo ponte sulla laguna, molto lungo, ma il traffico c’è ancora. Certo i primi tempi si faceva fatica. E poi la lingua… Si parlava “spiccin inglisc” un misto di inglese -era una colonia- e bergamasco. Quando si voleva dire licenziare, siccome in inglese si dice sack, sentivi dire “ i ga ansacat an negher”, che voleva dire hanno licenziato un nero. Saltavano fuori frasi davvero strampalate.
Tante donne nigeriane sono imprenditrici, molto brave nella compra-vendita
Ad Apapa, sulla laguna nella zona del porto, da casa mia vedevo sulla strada di terra marrone le donne con la cesta sulla testa, vendevano arance. Non riuscivi a dare un’età a quelle donne. Partivano la mattina a prendere l’acqua, si arrangiavano come potevano. Camminavano belle dritte, scalze o coi sandali. I bambini piccoli dietro sulla schiena dentro a un telo, dormivano. Quelli più grandicelli anche loro a piedi. Al nord, nel circondario di Abuja ho visto le “trockuman”-noi pronunciavamo così- caricavano sulla schiena pesi enormi, le chiamavano donne- camion. Lì gli uomini seminano, invece sono le donne a vangare e raccogliere, a fare i lavori più pesanti. Tante sono imprenditrici, molto brave nella compra-vendita. Mi sono sempre piaciuti i loro abiti tradizionali, ricamati. Con un rettangolo di stoffa attorcigliavano il tessuto per fare i copricapi – non ho mai capito come facevano- sembravano addirittura inamidati. Ai mercati all’aperto trovavi il batik stampato, importato dall’Olanda, o quello a cera con i bei rosoni ovali al centro ripresi negli angoli e la bordura intorno. Tessuti verdi, arancione, viola, proprio grandi che potevi farci anche la tovaglia. I venditori passavano a bussarti per venderti avorio, statue in ebano intagliato, pietra malachite. Al mercato, proprio quando ho compiuto quarant’anni hanno cominciato a chiamarmi Mami, per rispetto, forse mi vedevano coi bambini.

Era quasi un obbligo tenerli a servizio, così gli davamo un lavoro
I miei figli sono nati a Lagos, al Saint Nicholas Hospital. Col primo, mi ha aiutato a partorire un medico nigeriano. Con Fabio, uno indiano. I primi tempi in casa mi aiutava un yellow-boy, aveva la pelle gialla, veniva dal Calabar. Gli ho insegnato a stirare. Educato, bravo, si chiamava Dennis. E’ il nome che ho scelto per il mio primo figlio. Quando è nato Fabio mi aiutava una donna, Comfort. Era quasi un obbligo tenerli a servizio, così gli davamo il lavoro. La loro casa vicina alla nostra, facevano i guardiani e gli autisti. Arrivavano dal nord, da Kano, Sokoto. Erano musulmani. Poi nel ’76 il capo ci ha regalato una macchina, e con due figli ero più libera di spostarmi. Ma alla scuola italiana, a Ebute Metta, 15 km da Lagos, ci andavano con il pulmino della ditta. Partivano alle sei del mattino , per il gran traffico, sopra dormivano ancora un po’. Li aspettavano le maestre italiane, mogli di gente che era in Africa per lavoro.
Ci piaceva festeggiare anche se non c’erano compleanni. Invitavamo a casa le bambine filippine vicine di casa per la torta. Ma io preparavo sempre anche gli spaghetti col sugo! Non aspettavano altro! Con i bambini andavamo al mare a Badagari al confine col Benin, vicino alla fortezza dove imbarcavano gli schiavi. Affittavamo una capanna come bungalow . Oppure alla spiaggia di Vittoria Island , o fino alla baia artificiale dell’isola di Tarqua Bay con il banana-boat. Nel Natale del ’75, alla diga Kainji sul fiume Niger siamo entrati con la jeep nelle riserve di elefanti, proprio tanti, gazzelle, gnu, antilopi-cavallo. Diverse volte a Ilorin, una città grande tra il nord e il sud della Nigeria, fuori dal traffico, rilassante. Con l’areo fino a Kano, nel nord, poi a Kaduna e alla riserva di Yankari piena di facoceri e gazzelle. Dei leoni però abbiamo sentito solo il ruggito.

In quindici anni, tre attacchi di malaria e i colpi di Stato
In quindici anni ho avuto due attacchi di malaria, febbre, tremore. Un paio di giorni a letto, ti danno il chinino e ti passa. Ma ho ben presente anche il periodo dei colpi di Stato, quello del ’73, pacifico. Una settimana di coprifuoco ed è finita lì. Poi l’altro il 13 febbraio’76, hanno assassinato Murtala Mohammed. Altri giorni di coprifuoco. Dopo gli hanno dedicato l’ aeroporto. Le notizie ci arrivavano dalla radio e televisione nigeriana. Come nel ’79 quando abbiamo saputo che Shagari è stato eletto presidente della Repubblica. Hanno cominciato subito a tracciare la nuova capitale, Abuja, al centro della Nigeria, tutta colline e montagne, poi è stata proclamata nel 1991. Nell’84 sono tornati i militari. Io me ne sono andata nel giugno dell’86 con i bambini.
Volevano continuare gli studi, ma là c’era solo il liceo classico. Qui mi sono trovata spaesata. Tante amicizie non le ho più trovate, però ne ho fatte altre. Come adesso, quando ci incontriamo per giocare a burraco. Comunque, se vuoi partire devi avere anche uno spirito di avventura, adattarti. E fare come ti diceva ogni sera la televisione quando finivano i programmi: “Tomorrow is another day” che voleva dire “domani è un altro giorno, calma se non hai finito un lavoro oggi, lo finirai domani”.