Tante donne/
Storie uniche
Il libro Donne. Pazze, sognatrici, rivoluzionarie (di Milton Fernández, Rayuela Edizioni, Milano, 2015, pp. 260, € 15,00) prende vita ad Aiguà, un paesello sperduto nella nebbia a sud-ovest dell’Uruguay, in una casa malandata vicino una discarica. Parte da sé, Milton Fernández, dal mistero tenuto nascosto per anni. Di quella sorella capitata un giorno in casa senza preavviso, senza sapere da dove. Una ferita di dolore, poi stemperata nella riconciliazione di una madre e una figlia, dopo cinquant’anni. Un universo ancora tutto da esplorare, per Fernández, quello femminile, insondato nelle sue pieghe complicate e nascoste. Un mondo tuttora debitore di una storia scritta con mano e occhi maschili. E le donne, se compaiono, lo sono come categoria sociale, raramente soggetti autonomi.
L’autore agisce per sottrazione. Toglie il velo e fa uscire dall’ombra biografie ritratte nella loro dignità sofferta. Ampio l’arco cronologico, dalla Francia di Richelieu ai nostri giorni, alle vaste aree geografiche tra i continenti nelle terre più remote. Narrazioni brevi per un racconto della storia da un’angolatura dal basso, per ampliare la prospettiva che si fa più acuta, sottile. Vite di singole donne o vicende di storie collettive di intere comunità. Conosciute oppure anonime, raccolte in trentadue ritratti delineati con cura, dalla scrittura sciolta e misurata, capace di emozionare e restituire testimonianze vive che pulsano e si dischiudono a chi le vuole accogliere.
Un’istantanea fissa lo sguardo veggente di María Sabína. Nel Messico meridionale è la “buffona sacra”. Conosciuta come “Mujer espiritu”, la curandera sciamana, canta in mazateco, mangia i funghi della saggezza e compie miracolose guarigioni. Lo studioso Gordon Wasson, grazie a lei, riuscirà a isolare il principio attivo di quei funghi, utilizzati dieci anni dopo nella medicina psichiatrica.
Lontano, ma eloquente il ritratto di Martine di Bertereau, la prima rabdomante donna, capace di sentire nel suo corpo l’intero corpo della terra. Accusata di essere indemoniata per aver fornito prove sulla trasmutazione dei metalli, sarà reclusa nel 1642 per ordine del cardinale Richelieu, colpevole di voler sovvertire l’ordine naturale del mondo.
Fragile e forte l’immagine di Pina Bausch, la coreografa tedesca amata e detestata, forse perché incompresa nell’innovazione del suo teatro-danza. Intensa e struggente la voce di Violeta Parra. La passione, il recupero della musica popolare cilena. E il congedo dalla sua fragilità, suicida nel 1967 a cinquant’anni. Le note della sua “Gracia a la vida” continuano a risuonare nel mondo.
C’è anche la vita ai margini di Silvie Koffi, la ragazza dall’aria spavalda, il sorriso gentile e la voce scura, morta di freddo di stenti e di alcool a Milano sotto i portici, in piazza XXIV maggio. E quella di Rose Mapendo, di etnia Tutsi, delitto imperdonabile nel Congo del 1998. Scampata all’eccidio, fonderà negli Stati Uniti la Mapendo International, per l’aiuto ai rifugiati provenienti dalle sanguinarie guerre intestine africane. Hadijatou Mani è ancora in attesa del risarcimento dei danni subiti. Venduta nel Niger a 12 anni al suo padrone-marito come si vende una capra, nel 1966 verrà condannata da un tribunale superiore nel rispetto del “diritto della tradizione”, per aver avuto un figlio da un altro uomo.
L’irruenza della colonnella Clara de la Rocha, a 19 anni tra le truppe della rivoluzione messicana, fa da contrasto alle parole felpate e silenziose della poetessa Idea Vilariño, insieme a quelle di Syria Poletti di Pieve di Cadore, classe 1917. Emigrata in Argentina con la famiglia, rimonterà la propria esistenza sotto un’altra lingua, “con quel suo trasmettere la passione del sentirsi a casa in ogni luogo e un po’ stranieri in qualunque casa”. E prima di far perdere le sue tracce, scrive un suo libro anche Carolina de Jesus, semianalfabeta. Da una favela di Canindè, in “Quarto de despejo”, La stanza dei rifiuti, denuncia le condizioni di miseria umana degli abitanti delle bidonville brasiliane, mentre scavano nelle montagne di spazzatura.
Salda nei suoi princìpi, a Archham, nel nord-ovest del Nepal, Maheshwari Bista, farà costruire una stanza nel cortile di casa sua, per accogliere donne durante il ciclo. In attesa che la legge emanata dal governo nel 1995 e mai applicata, non porrà fine alla segregazione, lontano dal villaggio, delle donne durante quei giorni. Come vuole la norma non scritta delle più dure tradizioni induiste: la “chaupadi”.
La rassegnazione invece pervade le donne di Codroipo, un paesello friulano. Si vedono rasate a zero e venduti i bei capelli: “si fa perché si deve fare”. Rifiutate come cameriere dai ricchi signori, perché “non se la sentivano di assumere una donna in quelle condizioni”.
Determinata e commovente la resistenza di Azucena Villaflor, argentina, la mamma di Plaza de Mayo col nome di un fiore, sequestrata nel 1977 e poi sparita, mentre insieme alle altre madri, con il fazzoletto bianco in testa, cercava i figli desaparecidos. E ancora, la risolutezza disperata di Reza Gul, di Farah, piccolo villaggio del nord-ovest dell’Afghanistan, che rivendica con le armi il figlio crivellato dalle raffiche dei talebani. Nella sua lotta, perdura anche la novantenne Kim Bok-Dong, da vent’anni nel Consiglio coreano di donne reclutate dal Giappone come schiave sessuali. Raccoglie informazioni per rendere giustizia a se stessa e alle 400.00 Halmoni, le nonne, così le chiamano in Corea. Per il Giappone, invece, sono donne di conforto. Segregate, sottoposte alle più inaudite violenze nelle catene di postriboli su tutto l’impero del Sol Levante, dalla Micronesia alla Birmania durante la seconda guerra, fino alle bombe di Hiroshima e Nagasaki.
Toccante l’energica ribellione di Sojourner Truth, nata schiava in una piantagione olandese dell’America nella cittadina di Esopus, vicino New York, prima donna nera a vincere la causa contro uno schiavista bianco. E poi il caso di Jineth Bedoya. Insignita nel 2012 a NewYork del premio internazionale per le donne di coraggio, ora sotto scorta. Dopo pestaggi e violenza, subisce una condanna a morte per aver portato avanti un giornalismo d’inchiesta a Bogotà, sul traffico d’armi, coinvolti organi paramilitari e polizia della Colombia.
Ma le biografie di Fernández si spingono oltre. Chiamano in causa, trasversale a tutte le culture, la cultura della tradizione, presunta custode della verità assoluta. Leggende, fiabe, miti fondativi e quelli delle origini dei popoli spesso diventano portatori e disseminatori di stereotipi, modelli di violenza e di stupri di massa. Tutto legittimato da una ragione di stato, come nel caso del mito dell’origine del popolo romano, il ratto delle Sabine, uno stupro collettivo. E se anche la scuola tace, si insiste a replicare in modo a-critico la visione maschile con cui è scritta la storia.
Claudia Piccinelli
vedi link: Rassegna libertaria