Marzia Piccinelli racconta l’ estate del 1969
La partenza in corriera
Sul viale del ricovero, davanti al Campetto ricordo un via vai di mamme nonne zii, tanti curiosi. Il mio posto assegnato sulla corriera, un libro di poche pagine con Pippo, Pluto e Paperino da sfogliare e il mio nome scritto in stampatello con la penna blu , sulla prima pagina. Aperto in due, le pagine mi coprivano gli occhi, così nessuno vedeva le lacrime.
Sapevo che sarei andata al mare, ma non come sarebbe andata, una volta là. Però, dai, c’era mia sorella Claudia più grande di me di tre anni. La nonna Santina ci aveva regalato due borsellini, piccoli, in pelle, color turchese, morbidi con la chiusura sopra dorata. Dentro si sentivano tante monetine, ma non mi rendevo conto di quanto valevano e cosa avrei potuto comprare. Ma tanto ci avevano detto che non si poteva comprare niente, quindi…Allora ogni tanto le facevo suonare, per sentire se c’erano ancora tutte.
In cortile, preghiera e alza bandiera
Le divise uguali, con il numero e le iniziali fatte ricamare e cucite dentro, al rovescio come un marchio di riconoscimento in caso di fuga. Qualche bambino aveva una divisa su misura perché nelle altre non ci stava dentro. Ad altri invece dovevano stringere l’elastico in vita altrimenti se correvano perdevano i pantaloncini.
La maglietta a righe obbligatoria anche in spiaggia, per non scottarci -non potevano mica spalmarci la crema a tutti! – e il cappellino sulla testa schiacciato come un fungo.
Il cortile grande della colonia chiuso da una cancellata si apriva solo quando uscivamo in gruppi. Al mattino e alla sera si trasformava in una chiesa all’aperto per la preghiera e in una caserma dove tutti in fila guardavamo l’alza bandiera.
I giochi a squadre o a coppie
Solo nel pomeriggio i giochi a squadre, oppure a nascondino, a bandiera fazzoletto, al tiro alla fune. A coppie, invece, giocavamo con le armelle delle albicocche o delle pesche lasciate al sole per farle seccare bene, una sul dorso della mano, quattro a terra, prenderne una senza far cadere quella sulla mano. Anche quando non si andava in spiaggia, scrivevamo con un bacchetto sulla terra bella pressata come con un gessetto sulla lavagna.
Tante volte, invece di giocare ci aggrappavamo alla ringhiera. Il tempo passava a guardare la gente. Fortunata! Pensavo, poteva andare al mare dove voleva, scegliere la spiaggia e l’ombrellone, invece noi no, dentro nel recinto ad aspettare gli ordini.
Spiaggia, mare e docce di gruppo
La spiaggia lunga, la sabbia finissima da farla sembrare ancora più immensa. Per noi bambini, tutti stipati in un rettangolo all’ombra di una tettoia fatta con bande di tela per ripararci dal sole, era come stare in un serraglio per pulcini di allevamento. E quando l’ombra si spostava bisognava seguirla. Il mare mi sembrava meno azzurro di come l’avevo visto sulle cartoline che ci scriveva mia zia Anna quando andava tutti gli anni, a luglio. Bagni pochi, ma l’acqua sì, quella era proprio salata. Al fischio di madre Ines, in gruppo a correre incontro all’acqua, con la divisa, bagnarsi fino sopra le gambe e ritornare subito in spiaggia con la sabbia che ti si incollava addosso. Ma questo non è un bagno! dicevamo. Qui si fa così, rispondevano loro.
Tornati alla colonia, maschi e femmine in file diverse negli anti-bagni, grandi, ad aspettare il turno. Le mani delle signorine ci insaponavano, poi accucciate a sciacquarci con il getto dell’acqua fredda della doccia, quattro o cinque per volta. E che vergogna! Sembrava un lavaggio a catena, fuori uno, sotto un altro.
Il refettorio
Non volevo mai che arrivasse l’ora del pranzo o della cena. Forse perché ero piccola, me lo ricordo enorme il refettorio quando era vuoto. Con quell’odore pesante di caffelatte al mattino e di pasta col sugo a pranzo. I più grandi portavano sui tavoli lunghi le brocche di acqua, ma quell’acqua nessuno la voleva. Non riuscivo a berla da quei bicchieri, alcuni di alluminio. L’acqua aveva un sapore di ferro, non andava giù. Invece il pane della colazione, morbido e ancora caldo, avrei mangiato solo quello, tanto era buono. Il tipo lungo portato nelle ceste, tagliato a fette. Le mettevano nel portapane ordinate e vicine, le più piccole avevano la crosta più grossa. Troppo buono. Pà surt.
Le camerate
Enormi, sembravano stanzoni da ospedale. Tanti letti, tutti uguali, uno vicino all’altro e un comodino piccolo per mettere poche cose. Lo stanzino della signorina vicino alla porta chiuso da una tenda. Aspettavo Cichina, una cugina di mia mamma. Passava a salutarci la sera in camerata. Aveva là i suoi figli e i suoi nipoti. Mi vergognavo di lei, ma la aspettavo perché sapevo che mia mamma glielo aveva chiesto. Una mattina appena sveglia, la signorina: tu oggi non fai il bagno, hai tossito tutta notte. Eh, no io non ho la tosse, è stata quella là, l’ho sentita anch’io. Ma lei non ti credeva e io saltavo il bagno. Mi diceva, tu metti l’acqua del mare in mano e aspirala col naso, ti fa bene. Ma bruciava troppo così salata, e io non lo facevo.
Il giorno più bello
In spiaggia, aspettavamo l’ultimo giorno per la gara di sculture di sabbia. Correvo curiosa a guardare ogni volta sempre più sorpresa cosa si riusciva a fare solo con la sabbia, acqua del mare, palette e secchielli. La mia squadra aveva scavato e creato un motoscafo. Bellissimo, con i sedili davanti e dietro, decorato con le conchiglie, e con il suo volante. Per la foto finale hanno fatto sedere me al posto di guida, perché ero la più piccola e la più leggera. E abbiamo vinto il primo premio.
link: www.youtube.com ChiariAlbum Partenza per le colonie estive (1965)