Sei mesi a S. Gervasio, sei mesi in città a servizio: “quella delle 24 ore”. E poi dodici ore in ospedale, in cambio mi davano da mangiare e da dormire
Rita (Chiari ). Io sono del ’35. A undici anni a ottobre appena finita la guerra, nel ‘46 sono andata dalle suore ad aiutare in cucina, mescolavo la minestra nei pentoloni che a me sembravano grandissimi, forse perché ero piccola. Mi davano centocinquanta lire al mese. Mi sono anche un po’ ammalata perché la cucina era nell’interrato. D’inverno si doveva tenere aperta la porta per il fumo che c’era, poi bisognava andare a prendere l’acqua, perché si gelavano tutte le canne. Dovevo fare un lungo tragitto al freddo, per andare a prendere l’acqua e ho preso una bella bronchite, così mio padre mi ha tenuta a casa. Sono andata anche dalle mie cugine cinque o sei anni. Facevo la commessa, sempre a S. Gervasio, io sono nativa di S. Gervasio bresciano. Quando avevo quindici anni è morto il papà. Eravamo cinque fratelli, nessuno che lavorava e bisognava rimboccarsi le maniche. Allora sono andata in servizio, quelle delle 24 ore, che stavo là notte e giorno. Loro erano signori che abitavano lì a San Gervasio, però facevano sei mesi a San Gervasio e sei mesi a Brescia. Il lavoro di casa era tanto perché con una famiglia di sette persone c’era sempre da fare. Lavare, c’era tutto da lavare a mano. Pulire, sì c’era la lucidatrice a San Gervasio. Nella casa di Brescia avevamo anche la lavastoviglie, però funzionava quando funzionava. Invece il tritatutto era una bella comodità. Non l’avevo mai visto!
La cuoca e un’altra signora ci aiutavano perché c’erano più di trentadue stanze. Io servivo in tavola. Ci si alzava al mattino alle sei e mezza fino alle nove e mezza o dieci di sera, quando non c’erano invitati, altrimenti si lavorava fino a mezzanotte qualche volta, e la giornata era così. Sempre. Per tempo libero c’era la mezza giornata alla domenica, però dopo aver fatto i lavori e i piatti del mezzogiorno. Per le sette dovevamo essere a casa per preparare la cena. Quindi, non era neanche una mezza giornata. E se pensi che adesso le badanti si lamentano che vogliono due ore al giorno, che vogliono uno che vogliono l’altro…. Purtroppo noi se volevamo guadagnare per mangiare, dovevamo stare a quelle regole. Quando potevamo uscire, si andava a fare una passeggiata, oppure ci si trovava dalle suore assieme ad altre cameriere, ci si scambiava qualche ricetta. Anche se io non cucinavo, mi piaceva ascoltare. A Brescia era un palazzone grandissimo, con saloni immensi, stanze enormi. Anche lì sempre invitati. Una delle figlie aveva la mia età e andavamo a scuola assieme. Quando compivano diciotto anni facevano delle grandi feste, c’era sempre un mucchio di gente. Dopo dieci anni, mi sono stufata perché è andata via la cuoca, è andata via l’altra signora e sono rimasta da sola. E’ vero che si era sposata anche un’altra figlia ed erano rimaste in tre ragazze, però erano sempre ancora in cinque in famiglia, e la gente, gli invitati c’erano sempre. Magari avevi appena preparato il tavolo, arrivavano. No, dovevi sparecchiare, mettere giù l’altra tovaglia, mettere giù gli altri piatti.
in cambio delle dodici ore di turno in ospedale, a fare assistenza, mi davano da mangiare e da dormire
Così mi sono trasferita all’ospedale Fatebenefratelli come inserviente. C’era il convitto e bisognava stare dentro dieci ore al giorno. O la notte o il giorno, erano sempre dieci ore. Un giorno, un’ostetrica che mi ha detto: “Perché non vieni a Chiari?” Ho risposto: “Senti, non so neanche dove sia Chiari. E poi, se si fanno i turni come faccio? Non ho neanche la macchina. I treni, non so se c’è coincidenza”. “Abbiamo fatto il contratto delle dodici ore, qui a Chiari – mi fa – ti danno da mangiare e da dormire, però se fai dodici ore”. Allora ho fatto due conti. Perché finito il servizio, dalla famiglia di Brescia prendevo trentacinquemila lire , se continuavo ad andare in servizio al Fatebenefratelli prendevo trentasei- trentottomila lire, a seconda se c’erano dentro delle domeniche, però mangiando una volta al giorno. Di sera magari si mangiava qualcosa per risparmiare perché in famiglia eravamo in sei, e a loro serviva il mio stipendio…. Se invece venivo all’ospedale di Chiari mi sembrava una gran bella paga: dodici ore, certo, però prendevo settantamila lire al mese! Così ho accettato. Ero l’unica a fare le dodici ore. Caspita, dodici ore! Ma non posso farle spezzate… Perché ti faccio – mettiamo- sei ore poi vado a letto un pochino, poi… mi sono appena appisolata e mi devo alzare di nuovo. No, se faccio le dodici ore è meglio farle complete: comincio alle otto di sera e finisco alle otto di mattina, che almeno di giorno posso dormire. Così sono stata io la prima a fare le notti complete qui, all’ospedale di Chiari. Mi ero organizzata con le suore. Dormivo in ospedale. I primi tempi mi avevano dato una stanza, di sopra, dove dopo hanno fatto il reparto di Otorino. Ma se volevo uscire, i signori portinai non mi aprivano più, dopo le dieci di sera. Allora, d’accordo con una mia amica dicevo: “Vengo a casa tua a dormire, se vogliamo andare a vedere il cinema questa sera”. Sono rimasta diciannove anni, in ospedale a Chiari. Dopo un anno e mezzo o due con il contratto delle dodici ore, hanno detto che non era sindacale. Ho cominciato a fare le otto ore e a cercare un appartamento fuori.
Da Coccaglio a Pavia: “quella delle 24 ore”
Giuliana (Pontoglio) A ventun’ anni, nel ’51 sono andata a Pavia perché a Coccaglio non c’era posto di lavoro e la mia zia mi aveva procurato il posto di servizio da una coppia di gioiellieri. A settemila lire al mese, ero là “24 ore su 24 ”. Facevo di tutto, dal bucato, al pranzo e tutto quell’insieme di cose che si devono fare in una casa. E anche preparare il letto alla sera a tutti e due, tirando in dietro per bene il lenzuolo, con le ciabatte unite, per terra, sul tappeto. Una cosa così…antipatica che mi è sempre stata qui sullo stomaco. Devo dire che è stato un lavoro un po’ pesantino. La signora si cambiava tutti i giorni. E io, ad ogni cambio, dovevo pulire, spazzolare i vestiti e se c’era bisogno di una piccola stiratura la si faceva. Poi si mettevano i vestiti nell’armadio. Una cosa che …uff…mamma mia…

Al mattino, il caffè a letto, siiii, sempre! E portavo al lavandino anche l’acqua calda in una bacinella bianca perché, per avere l’acqua calda, dovevamo farla scaldare sul fuoco. Tempo libero? Alla domenica pomeriggio. Basta. Con le mie amiche facevamo una passeggiata lì dove c’è il Ticino. Al cinema, mai. Non riuscivi, perché bisognava rientrare presto per preparare la cena. Non è che si potesse star via tutto il pomeriggio. Per quando pioveva, avevo detto: “Mamma, guarda che mi serve un ombrello” Allora lei: ” No, no, ma scherziamo…costa mille e cinquecento lire, non posso comprartelo! “. Ecco, così prendevo anche l’acqua! Se no, mi fermavo a casa, non uscivo. Perché…se piove…non si esce!