Dagli anni ’40 fino a metà degli anni ’60, molte donne della bassa pianura bresciana lasciano le loro famiglie per il lavoro stagionale della mondina nelle risaie, immense distese di campi allagati nelle zone del pavese, vercellese, novarese dove si coltiva il riso.
Mary, Emma, Luigina, Pìne (Cizzago- Comezzano); Giuditta, Enrichetta, Domenica (Trenzano-Cossirano); Maria, Elvirì, Anna (Chiari); Margherita (Rudiano); Mercedes, Caterina (Adro); Fernanda.
Nella risaia quando il sole mi bruciava la pelle, cantavan le mondine le canzoni più belle.
♫♪… La risaia l’è lunga e l’è larga / l’è circondata di acqua e di riso…(canti di mondine)
Mary Sono andata in risaia a dodici anni, dal ’43 al ’54. Ho fatto undici anni di risaia. A Novara, Mortara, Pavia, Vercelli. A Olai, Cascina Grande. Le ho girate tutte. Non sempre la stessa cascina, neanche lo stesso padrone. Dicevo: “Ne ho quattordici di anni, non dodici “. Perché volevo andare a lavorare. Avevo la mamma vedova, sola con cinque figlie. Mi toccava andare per forza a lavorare. Quando ero dentro nella risaia, accucciata, il padrone non mi vedeva perché ero piccola e minutina. Faceva freddo al mattino alle quattro in risaia, allora io cercavo il caldo coi piedi, nel fango, sì perché l’acqua della risaia al mattino presto è calda. Mi abbassavo e il padrone non mi vedeva, e allora mi chiamava: “Maria, dove sei? Alzati! “. Aveva paura che non lavoravo. Non mi vedeva rancare, strappare l’erba. Gridava. Allora mi alzavo così riposava la mia schiena. Ero piccolina, ma mi faceva già male. Poi sono andata in un’altra cascina. Là c’era un conte che ci voleva bene. Veniva giù alla risaia vestito in bianco, con le nipotine. Allora per rabbia prendevo un mazzo di riso, glielo buttavo vicino, lo bagnavo, lo sporcavo tutto. Poi però lui mi diceva: “Adesso vieni qui a cantare con noi. Cantate, fate una bella canzone, che vi ascolto”. E infatti cantavamo tutte. Così ci alzavamo e facevamo riposare la schiena. Perché lui lo sapeva che ci faceva male.
♫♪… e per l’industria di noi mondariso/ in risaia noi siamo tornate…
Durante la guerra, eravamo rimaste senza sale. Sì perché noi mangiavamo riso e fagioli, fagioli e riso senza sale. In tempo di guerra non c’era né sale né niente. Loro l’avevano sul camion i tedeschi. “Vai tu, che hai la lingua lunga”. Allora sono andata su sul camion e ho detto ai tedeschi: “Mi date un pito (un poco) di sale a noi? “. Così abbiamo mangiato per un po’ minestra buona col sale.
Emma Se no, noi davamo lo zucchero per farci dare il sale. Mangià la pulènta salada l’éra ‘n altra cosa. (Mangiare la polenta salata era un’altra cosa). Io l’ho mangiata nera, coi dadi, la polenta.
♪♫… Noi siamo partite dai nostri paesi/ siamo partite con grande dolor
abbiamo lasciato la mamma e l’amore…

Pìne Ogni anno, in primavera cominciava il passa-parola tra le ragazze. Bisognava farsi notare (iscriversi) dal collocatore, che rilasciava il tesserino con l’idoneità al lavoro, la data e il luogo di partenza.
Mercedes C’era chi partiva con la promessa di una bicicletta nuova e al ritorno ne trovava una vecchia riverniciata. Chi pensando che mamma e papà le avrebbero comprato un vestitino che in dodici anni, però, non si è mai visto.
Emma In tempo di guerra compravamo i supei nöf, zoccoli nuovi per andà ai ris. (andare in risaia).
Domenica Quando partivano tutto il paese era fuori in piazza a salutarle. E così succedeva anche quando tornavano. Loro ad andare piangevano, ma piangeva anche tutta la gente che era là a salutarle. Facevano un giro sul camion lì in piazza.
Mary I primi anni si andava in risaia col treno, con la valigia di legno fino a Pavia. Venivano a prenderci coi carri trainati dai cavalli, mettevamo su le valigie e ci portavano alla cascina.
Pìne Le mondine che partivano da Cizzago- Comezzano andavano fino a Lograto in corriera, in tram fino alla stazione di Brescia e col treno fino a Novara, Pavia, Mortara. Alla stazione ci venivano a prendere col carretto del padrone e ci portavano in cascina. Dal ’48, però, il viaggio lo facevamo col camion di uno di Orzinuovi che ci portava diretto fino alla risaia, alla Cascina Grande di Vignale, a Novara, oppure alla Cascina Scaldasole, a Pavia.
Domenica Noi andavamo spesso a trovare le mondine, alla domenica partivamo in quattro o cinque moto.
Pìne Ma la visita parenti non era ammessa in tutte le cascine. Da noi non c’erano visite parenti.
Giuditta Io sono andata in risaia a quattordici anni, dal ’54 al ’65. I primi anni, si partiva da Trenzano col pullman fino a Brescia. Da Brescia si prendeva il treno e si arrivava in Stazione Centrale a Milano. Dalle dieci del mattino fino alle quattro del pomeriggio, finché non era piena tutta la tradotta del treno, non ci facevano partire. Poi a mezzogiorno ci davano un sacchettino con dentro un pane, un’arancia, una mela e una bottiglietta di acqua.
Mary A lé, alla signora, i ga daa l’arancia? A mé no! (A lei, alla signora davano l’arancia? A me no!).
Giuditta Salivamo sulla tradotta e si partiva. Ci si fermava una a Trecate, l’altra a Ferrera, l’altra a Vallelomellina, l’altra a Nicorvo fino a che veniva scaricato tutto il treno. Per dieci giorni c’era sempre la stazione occupata.

Domenica Anche da Cossirano partivano centodieci o centoventi mondine. Siccome servivano i tesserini per andare in risaia, allora ci toccava andare a Brescia dal Sindacato, lì dove c’è la piazza con la fontana. Mio marito aveva una cugina, suo marito faceva il collocatore a Cossirano. Andava lui a Brescia a fare i tesserini, altrimenti se non poteva ci andavo io.
Luigina Siccome non avevo ancora l’età minima, sono andata in risaia sotto falso nome. Mi avevano spiegato che quando chiamavano quel nome lì, dovevo rispondere io.
Giuditta Il primo anno che sono andata a Trecate, al ritorno sono arrivata a Milano alla Stazione Centrale. Erano tre giorni che avevo la febbre a trentotto, ma non ho mai perso neanche una giornata. Là in Centrale, sai che ci sono quelle panchette lì de preda (pietra) ? Mi hanno fatto buttare giù lì. E’ passato un poliziotto e ha detto a mia cugina: “Che cos’ha questa ragazza? “. ” E’ una modariso, c’ha la febbre a trentotto! “. ” Ma non c’avete dato niente? “. ” No, perché adesso stiamo andando a casa nostra “. Allora lui mi ha preso in braccio, mi ha portato sotto alla stazione – che io non avevo mai neanche visto – C’è venuto anche mia cugina. Mi hanno dato il chinino. In un bot (balzo) son saltata in piedi, sveglia come un gasalet! .
Pìne E alla sera, come si arrivava in camerata si tirava la corda per appendere i vestiti…
Emma …prendevamo il materasso, vuoto, fatto di sacchi e lo riempivamo tutto di paglia e si metteva sulla branda. Ecco, se no ghérem niènt de dórmer (avevamo niente sopra cui dormire). In stanze grandi così, dormivamo in venti. C’era la nostra branda, la nostra rete.
Maria Il secondo anno non sono stata a Salasco fino alla fine perché mi hanno chiamato a lavorare a Gallarate. Allora, da sola ho avvolto nei giornali il mio materasso di penna che mi ero portata da casa e mi hanno accompagnato in Stazione Centrale a Milano. Ho fatto dalla Centrale a Piazzale Loreto a piedi. Da sola. Con la valigia e il mio materasso. Passavano i camion. Si veniva a casa coi camion. E per fortuna che c’era lì uno di Castelcovati, ma non volevano prendermi su, che ce ne sono sempre lì così tante… “Dài töla sö, caricala sopra, non vedi in che condizioni è? “. Perché, col materasso, la valigia…non so… oggi, non so se ne vedete in giro ancora di donne con i materassi! Mi hanno messo sopra il camion e siamo venuti a casa. Poi mi hanno lasciato giù a Chiari, söl pont del Mareng (sul ponte del Marengo).
Pìne Il gruppo sceglieva la capa e la cuoca. Io sono stata una capa- mondina. Invece come cuoca ho sempre avuto Caterina Maifredi.
Giuditta E là si cominciava il nostro calvario. Quattro, quattro e mezza del mattino, la cuoca ci chiamava col secchio del latte – patapim patapum – e poi ci dava un quarto di latte. Si andava giù in risaia e si iniziava il lavoro.
Emma Prendevamo un barattolo di alluminio, così quello non si rompeva. Pasta, riso e fagioli a mezzogiorno e alla sera mangiavamo il pa biscot, pane raffermo, pane di riso. Lo pestavamo con gli zoccoli e lo sbriciolavamo nella minestra. E anche alla mattina a colazione, pa biscot nel latte. A nove e mezza, sull’argine, arrivava la cuoca col sacco del latte e ci dava un panino ciascuno. Ne avremmo mangiati dieci dalla fame che avevamo!
Elvirì Mezz’ora di riposo sdraiate per terra, nel campo, ma bastava per raddrizzare un poco la schiena perché stavi per dodici ore abbassata.
Emma C’era la barlettaia che passava con il barlèt, una botticella con un rubinetto piccolo e ci dava da bere.

Elvirì Poi ti davano ogni tanto anche una fettina di quello stracchino lì, il dolceverde, mai mangiato prima, erano i primissimi formaggini che si trovavano.
Mary Gli ultimi anni ci davano un pezzetto di carne la domenica e un bicchiere di vino.
Elvirì Noi ragazze davamo il nostro bicchiere di vino alle anziane, così se lo tracannavano e si addormentavano subito.
Mary Ci davano anche la cotognata, una specie di marmellata spessa. Il mio dispiacere era quando entravo in camerata, e siccome sull’angolo della branda nascondevo sotto la coperta due o tre panini e una fetta di cotognata, alla sera quando alzavo la coperta trovavo più mosche che cotognata. Però, mandavo via le mosche e la mangiavo lo stesso perché avevo proprio fame!
Luigina Anche gli uomini andavano in risaia. Mio marito Antonio ha iniziato a diciassette anni. Da settembre a novembre. Verso la metà di settembre gli uomini iniziavano a mietere a mano il riso con la fiòca (falcetto) e poi lo portavano in cascina dove veniva battuto con le macchine. Verso novembre, invece si seminava a mano. Poi si copriva tutto il campo di acqua, perché, come ci hanno insegnato, il riso nasce e muore nell’acqua. Gli uomini preparavano il lavoro per noi mondine.
Giuditta Dal 15 di maggio al 25 maggio dovevamo essere tutte in risaia e si rimaneva fino al giorno di San Pietro. Entro quella data bisognava aver fatto il trapianto, altrimenti, si diceva, il riso non cresceva più. Dovevamo trapiantare le piantine di riso nel terreno inondato di acqua.
♫♪… A fare il trapianto è una cosa di spavento/ tirare la riga dritta sebbene in cinquecento…
Caterina L’acqua arrivava fino alle ginocchia e anche le braccia erano immerse nell’acqua. Si facevano dei mazzetti con tre o quattro piantine, poi con due dita di una mano si faceva il buco nel terreno e con l’altra mano si inseriva il mazzetto.
Giuditta Mi è venuto anche il mal del riso, proprio la grata (impronta della pianta) del riso sulla gamba, che diventava tutta verde fino qua…dove arrivava l’acqua. Tutto verde anche il piede…
Pìne …ci spalmavamo tutte di pomata, oppure si facevano fasciature contro il prurito, le croste…
Fernanda In testa mettevamo un grosso cappello di paglia e tante mondine portavano dei manicotti per non scottarsi la pelle.
Mercedes Usavamo una crema, la Biancardi, che serviva a proteggerci dal sole. Altrimenti tornavamo a casa nere, ed era come averci un cartello addosso. La gente parlava, faceva presto a dire: “Quella lì la vén dalla risara “( quella lì viene dalla risaia). Che poi voleva dire che la tua famiglia era povera, altrimenti non avresti avuto bisogno di fare quel lavoro lì.
Fernanda Le calze di naylon invece servivano a proteggersi dal riso che tagliava le gambe e dagli insetti. Zanzare, tante zanzare, perché è l’umidità della risaia che le attira.
♫♪… e poi per preferenza ci mandan a rancare
Emma Dopo il giorno di San Pietro si cominciava la monda. Cresceva in fretta l’erba, diventava alta e noi andavamo a mondare, a strappare, a pulire il riso da quelle erbacce lì. Lo chiamavamo al giaù. Era una pianta grossa così. A rancare (strappare), ci incontravamo dieci, venti mondine di qua, dieci, venti mondine di là e in mezzo c’erano tutte bisce…fiiit, che pora (che paura) !!!
♫♪… padrone sulla riva ci stava a guardare
con gli occhi inferociti gridava: “Giù ‘ste man, se no sic franc de mülta ta pagarét dumà”…

Mary “Giù i man…dré i gamb…. Giù i man…dré i gamb…” (Giù le mani, indietro con le gambe) – urlava il padrone – Si faceva così. Trapianto…indietro, rancare alla monda (strappare per ripulire)si andava avanti. Ho trovato anche di quei signori che mi facevano filare, lavorare tutto il giorno. Sai cosa vuol dire le mucche? Quelle piccole lì a metà, i vitelli? Quando nei loro campi avevano tagliato il frumento e dovevano arare il campo, per fare diventare le zolle piatte ci mettevano là noi coi piedi, a pestulà isé (pestare). Ci mandavano noi nei campi al posto dei vitelli o delle mucche. “Non vengo più alla risaia se mi fa fare questi lavori” – ho detto al padrone.
Giuditta Invece io gli ultimi due anni che sono andata a Nicorvo dalla famiglia Dondi, dopo tutto quello che ci davano – guarda come erano buoni quella gente lì – ci davano cento lire a testa. Ero io e mia sorella Cesira, così ne prendevamo duecento. Allora, un giorno si prendeva una formagella, un altro giorno due etti di prosciutto. Sembrava di scoppiare dal tanto mangiare! E una volta alla settimana, duecento lire di caramelle ce le tenevamo per il mattino, per la colazione. Mi ricordo ancora di quella famiglia lì, soprattutto della Gisella…
Elvirì Quando avevo diciassette, diciotto anni, nel ’47 finita la guerra, per quattro anni nelle cascine dove sono andata io, a San Sola, a Roncaro e alla Cascina Genoana al mattino il fattore aveva per richiamo una frusta, dava tre colpi che sembravano fucilate. Era un inferno! E tutto il giorno in risaia: “Travajé done, travajé ” (Lavorate donne, lavorate).
Caterina Per fortuna che il proprietario della cascina di Castelnovetto, che aveva già ottant’anni, era molto buono e ci teneva al suo lavoro. Mi ricordo che aveva anche dato un contributo per la costruzione di un centro vicino a Milano, la Fondazione Don Orione per aiutare i più bisognosi. Suo figlio era un tenente ed aveva sposato una torinese, che dopo il matrimonio era venuta anche lei a vivere a Castelnovetto, in provincia di Pavia. Questa signora diceva sempre che all’inizio suo marito non gli piaceva, ma dopo averlo visto in divisa, si è innamorata subito!
Fernanda Anche i miei padroni erano brave persone, ma avevo un guardiano, Giovannone, che era un po’, diciamo…schiavista. Quando scoccava la mezza, noi donne dovevamo smettere il lavoro, ma lui ogni giorno aveva sempre qualche scusa e ci obbligava a lavorare anche mezz’ora in più, senza paga. Nel nostro gruppo, però, c’era Mentina, una signora anziana, una specie di strega, e quando il furbo Giovannone arrivava con altri ordini, lei si metteva a fare una specie di rito con parole magiche e gesti strani per mandarlo d’urgenza al gabinetto, così noi smettevamo il lavoro e finalmente andavamo a pranzare.

Mary Alla domenica si faceva il bucato, nell’acqua della risaia. Bella…sporcacina. Facevamo il bagno nel fosso, veniva giù l’acqua della risaia tutta sporca, ma noi andavamo dentro lo stesso. Oppure facevamo chilometri per cercare un goccio d’acqua…di quella lì bella pulita. Poi andavamo a messa. Una domenica, le mie amiche mondine hanno dovuto fare sei chilometri e mezzo a piedi per venirmi a trovare all’ospedale di Novara. Avevo l’appendicite. E’ arrivata l’autolettiga in cascina . Piangevano tutte perché mi portavano via. Quando è stato di ritornare in cascina, le mie amiche non si ricordavano più la strada. Han visto un vigile. Sai che il vigile fa i segni, no? Una è andata là vicino e ha detto:”Mi dice per andare a Olai? “. Nel dire Olai, il vigile al ga fat isé (ha fatto così), ha spalancato le braccia e c’ha dato una pacca sulla faccia a una mondina! Abbiamo riso tanto quel giorno lì…Sono venute ancora a trovarmi all’ospedale. Facevano sempre sei chilometri e mezzo che po’ i dientaa trédès! (che poi diventavano tredici).
Giuditta Alla domenica, se il padrone aveva bisogno, facevamo le straordinarie. Quando andavo io alla risaia, l’Ascensione e il Corpus Domini erano due feste pagate. Invece adesso le hanno tolte. Facevamo quattro ore straordinarie e ci davano mille lire, duecentocinquanta lire all’ora. Si prendeva in quattro ore la giornata di dieci. E noi andavamo volentieri perché….dài…si prendeva qualcosa.
Mercedes Le ragazze guadagnavano meno delle donne adulte, perché c’erano due tariffe, da apprendista e da operaia.
Giuditta Intorno agli anni sessanta si prendeva mille lire al giorno e un chilo di riso, quaranta giorni, quaranta chili di riso, se ne facevi cinquanta ti davano cinquanta chili di riso, sessanta giorni, te ne davano sessanta. A casa mia il riso bastava solo sette o otto mesi, perché mia mamma lo dava a tutti quelli che arrivavano a trovarci: ” Poverinooo, tò un sacchettino a te. Poverinooo, un sacchettino al prete…“.

Mary Una volta sono tornata dalle risaie a Orzinuovi a prendere il riso col caratì (carretto). Il sacco s’è bucato. Me so riada a ca, e ma so mai rincursida che pérdie al ris. (Sono arrivata a casa, ma non mi sono accorta che stavo perdendo il riso). Mia mamma….quante botte che ho preso! Ho portato a casa il sacchetto del riso, ma c’era dentro quasi niente. Ne ho prese tante e tante e per tre giorni non mi ha dato da mangiare.
Il bello è che sul carretto c’era anche il riso delle altre. Da Orzinuovi a Cizzago, bisognava spingere il carretto, una la tiraa e tre le punciaa de dré ( una tirava e tre spingevano da dietro). Sono arrivata a casa, ma io di riso non ne avevo più, neanche quello delle mie amiche. Ridièm e schersaèm. Si scherzava, si rideva, si cantava. La gioia di avere il riso. Però quando sono stata a casa il riso l’ho preso…Doppio. Sulla testa!
♪♫… Il sole va calando/ la luna cavalca i monti/ signor padrone faccia i conti…
Emma Prendevamo i soldi e li mettevamo qui… nel reggiseno, fermati con la spilla perché avevamo paura che al ritorno, se si fermava il camion, potevano rubarceli.
Mercedes Niente lavoro? Niente paga.
Elvirì Un giorno, sciopero! Chi voleva andare a lavorare. Chi non ci voleva andare per tornare a casa un giorno prima. Gli uomini che volevano scioperare hanno preso il carretto con il cavallo, l’hanno buttato nel fosso, e hanno preso a sassate il carretto. Proprio un disastro, una paura che non ti immagini!
Mercedes Ma quando si scioperava, il padrone non dava neppure da mangiare. Quasi sempre, però, le donne del paese ci davano una mano, cucinavano in piazza e così riuscivamo a cavarcela lo stesso.
Fernanda A quindici anni, nel ’31 a Olevano in Lomellina alla cascina Battaglia, ho avuto la febbre molto alta. Mi sono fatta curare, ma due giorni dopo sono tornata subito al lavoro per non perdere il guadagno. Alla fine però sono stata premiata perché nella busta paga non mi hanno detratto i due giorni di malattia.
♪♫…che alle nostre case vogliam tornar…
Anna Siccome le vedevo tornare a casa dalla risaia tutte felici che cantavano, anch’io volevo andare a vedere che cosa c’era di bello in risaia. All’andata non erano tanto contente. Però nel tornare cantavano così allegramente che ho detto: “Voglio andare anch’io “. E sono andata. Ma quando sono tornata a casa c’avevo i reumatismi che non ero più capace di camminare.

Tante andavano anche all’ortaglia…
Enrichetta Andavamo anche alle ortaglie, nelle campagne vicino a Milano al confine con la provincia di Pavia. Io ero già sposata. Era appena morto mio suocero e mi aveva da poco comprato un tavolo e dovevo arredare anche un po’ la stanza. Avevo bisogno di soldi, così sono andata anche all’ortaglia perché in risaia si stava solo quaranta, cinquanta giorni. Al mattino ci si alzava e si preparava un cestino con dentro un pane e dei cioccolatini di quindici centesimi e facevamo colazione mentre si raccoglievano le zucchine.
Quando dovevamo raccogliere i pomodori ci mandavano nell’ortaglia molto presto, altrimenti se andavamo tardi ce li mangiavamo tutti dalla fame che avevamo. Non ci davano niente da portare a casa. A volte riuscivamo a prendere qualcosa di nascosto, quando c’era buio. La prima a rientrare alla corte, in cascina, all’ora del pranzo ero io. Andavo dal cuoco, un omone grosso così. Siccome lui sudava molto, tutto il sudore scendeva nel paröl (paiolo) della minestra. Maginiamoci (Immaginiamoci),io non mangiavo più. Allora arrivavo per prima e mi mettevo io a mescolare la minestra. Così pensavo anche alle mie amiche, a non farci mangiare la minestra col sudore del cuoco!
Giuditta Come lavoro nelle ortaglie si faceva anche in risaia. Uguale. Solo che loro al mattino andavano sull’asciutto, a raccogliere le zucchine, il prezzemolo, cetrioli, carote, cipolle, lattughe, il sedano, i pomodori. Noi mondine invece eravamo nell’acqua. Stessa cosa che si faceva in risaia con le novizie, si faceva anche all’ortaglia: una bravissima in mezzo, due novizie, una bravissima, due novizie.
Luigina Tante volte bisognava lavorare fino alle dieci di sera a pulire le verdure perché la mattina dopo, molto presto, il padrone le doveva portare al mercato. Ci pagavano ogni otto giorni, ma noi potevamo tenere solo il minimo indispensabile, il resto lo custodiva la padrona. Poi alla domenica andavamo in paese a pagare il pane che ci portavano tutte le mattine. Era in queste occasioni che facevamo le foto. Per questo siamo vestite bene. Le foto costavano. Le poche che abbiamo ce le regalavano i ragazzi che ci facevano la corte.
Enrichetta All’ortaglia si dormiva nella cascina del padrone. Eravamo tre in un letto. Nella cascina c’erano delle belle camerate, ma erano sempre piene di sumeghe, di pulci. Per fortuna che nel ’48 è venuto fuori il D.D.T. (insetticida), perché io avevo il sangue dolce e le avevo sempre addosso, così almeno avevo un po’ di sollievo.

Giuditta In risaia, invece, c’erano i cinque minuti. Li chiamavamo così perché il bruciore della loro puntura durava tanto così. Che disperaziù (Che disperazione)!
Mary Alla mattina, i moscerini. A mezzogiorno i taa (tafani), e alla sera le zanzare. Per riuscire a dormire, andavamo a fare l’erba, la gramigna, perché fa tanto fumo. La accendevamo nella camerata, facevamo il fuoco così non venivano a pungerci le zanzare. Ma alla fine eravamo tutte nere per il fumo!
Pìne Alla sera, dopo la cena alcune di noi giocavano sull’aia a crusato, a salta cavallina…
Elvirì …una cantava, una piangeva, l’altra litigava, un’altra andava fuori a cercare qualche ragazzo. C’erano anche quelle che tornavano all’una, due di notte e nell’accendere le luci si vedevano le zanzare che erano attaccate al muro e si sentiva dalle compagne: ” Basta luce! Cretina! “.
A metà monda, venti, ventun giorni, si faceva festa in cascina. Arrivavano i ragazzi del paese in bicicletta e con la fisarmonica a trovare noi mondine forestiere. Si ballava, si rideva, si piangeva e ci si picchiava. E loro, le mondine del posto, ci odiavano a morte . Cosa succedeva? Il mattino dopo, al campo si andava tutte insieme e magari cinquanta andavano dalla parte di là del terreno e cinquanta di qua, in modo che a metà ci si incontrava e si cantava. Tu cantavi, ma quell’altra voleva confonderti e lo faceva apposta, per ripicca perché erano gelose, così a noi forestiere ce ne dicevano di tutti i colori. Una sera loro ce le tiravano (ci provocavano), queste donne qui, ma io non ho mai litigato. Veniamo fuori dai campi, da una cascina e da un dormitorio, eravamo circa centocinquanta. E una che dice una parola, l’altra che dice un’altra parola, un’altra ancora dice la sua. La cosa va per le lunghe…E così, giù a botte, ma botte, che sono intervenuti i carabinieri e sono stati lì a dormire, i carabinieri, perché avevamo paura che quelle continuavano a pestarci.
Giuditta Mi è sempre piaciuto cantare. Io nel ’62 sono andata a fare “Le voci della risaia” dei Fratelli Boschi, che presentava Nilla Pizzi. Ho ancora la medaglia, qui al braccialetto. Ho preso il secondo premio, il primo l’ha preso una ragazza di Manerbio. Abbiamo avuto una bella soddisfazione. Poi mi hanno chiamato tanto da Milano, per andare a cantare nel coro delle mondine, ma mia mamma, figuriamoci se mi lasciava andare!

Luigina All’ortaglia una domenica, alla festa del paese ho ballato nove balli con lo stesso ragazzo. Io non sapevo ballare e gli ho rotto tutte le scarpe in punta. Però non mi sentivo la coscienza pulita perché avevo ballato con un ragazzo che non conoscevo nemmeno. Così sono andata a confessarmi e il prete scandalizzato mi ha fatto giurare di non andare più a ballare se no non mi avrebbe assolto dai peccati!
Enrichetta Noi cii fermavamo all’ortaglia da marzo fino a ottobre. Però ogni tanto venivamo a casa. Una volta mentre tornavamo a casa in treno, a Rovato ci hanno fatto scendere e dovevamo farla tutta a piedi. Non capivamo. Passa fuori uno col carretto e ci fa: ” Dove state andando voi altre ?”. “Stiamo andando a Trenzano”. Allora ci ha dato un passaggio. Insomma, eravamo rimaste a piedi. Tutto si era fermato per l’attentato che avevano fatto a Togliatti. E’ successo il 14 luglio del 1948.

Maria Il tempo si passava anche un po’ scrivendo alla mamma o al fidanzato, le sposate scrivevano al marito ela nostra scrivania era la valigia di legno.
Mary Io avevo il fidanzato che era impiegato. Ogni mattina mi arrivava una lettera. E la capa delle mondine mi diceva:” Questa qui prende la posta tutte le mattine “. Ah, avevo almeno quello! Ma quando dovevo scrivere io, prendevo la valigia e un bigliettino, mi mettevo là al mattino, veniva sera tardi e io ero là ancora con il bigliettino senza essere riuscita a scrivere una parola.
Trenzano, 6 del 7 del ’51. Mia cara Enrichetta [ ]di novità al nostro paesello non ce ne sono. Solo ti rispondo al tuo desiderio di sapere per i manzetti, li abbiamo venduti nei primi giorni di questa settimana e abbiamo preso 350mila lire. E per la scrofa ti dico soltanto che ne ha partoriti ventitré…Baci tuo Angelo.

Cizzago, 24- 6-1953. Carissime,[ ] come siete partite buone da Cizzago, mi auguro di incontrarvi ancora altrettanto buone, anzi, di rivedervi animate da un santo proposito che dovrebbe essere quello di aiutare, poi, il vostro parroco nell’opera di bene in mezzo a tante vostre compagne che purtroppo lasciano molto a desiderare. Mi sono permesso queste brevi riflessioni perché troppo mi preme il bene delle vostre anime. Il vostro parroco don Carlo Pollonini.
Elvirì Se ne vedevano di tutte le qualità. Lui giocava a carte, lei anche. Un bicchiere di vino lei, un bicchiere di vino lui. A noi, in quarantatré giorni, non c’hanno mai rivolto un saluto, uno sguardo. Mai, si vergognavano. Se per caso capitava che il fattore dicesse: “Queste trenta arrivano qui, magari, e quelle trenta vanno di là ” – loro, niente da fare, o tutte e due di qua, o tutte e due di là, perché non muovevano un passo l’una lontano dall’altra, si volevano bene.
Margherita L’ uomo che controllava il lavoro del mio gruppo era interessato a me. Continuava a guardarmi e cercava anche di privilegiarmi facendomi svolgere meno mansioni delle altre. Non ho mai accettato la corte di quest’uomo perché a casa c’era tuo nonno che mi aspettava ed ero innamorata di lui. Ho rifiutato, però mi sono sforzata di non essere scortese, siccome dimostrare maleducazione poteva costarmi il licenziamento.
Mary M’è curit dré al fiöl del padrú (Mi ha fatto la corte il figlio del padrone). Lui si era innamorato di me. Mi diceva: “Dài, vieni qui…”. Una volta sono andata an de l’èrba (nell’erba). Quando ho visto che ’l vülia tucam, so scapada (lui voleva toccarmi, sono scappata). Un anno sono andata con quelle di Ludriano, öna l’è andada col padrù. Éla mia restada incinta? (una si è appartata col figlio del padrone. E’ rimasta incinta). Allora era grave. Era uno scandalo. E poi lui non l’ha sposata!

Mercedes Ai tempi ci si sposava presto e a vent’anni potevi avere già un paio di figli. Al matrimonio, dicevano, ci dovevi arrivare illibata. In realtà, si faceva di tutto di nascosto e spesso succedeva che qualcuna rimanesse incinta. Molte abortivano dopo il matrimonio per necessità, perché più di un certo numero di figli non si potevano mantenere. Allora ci si rivolgeva a “quelle signore”. Usavano un ferro da calza. Il giorno dopo era terribile, tra il dolore e la paura che ti venisse un’emorragia. Perché se andavi all’ospedale, i medici lo capivano subito e finivi nei guai.
Fernanda A Castello d’Agogna, in Lomellina, con grande sorpresa per tutte, è arrivata inattesa la nascita di un bambino, Italo, nato con l’aiuto delle altre mondine.
Enrichetta Le mondine erano giudicate male. Sì perché quando arrivavano in risaia le forestiere, i signori maschi – mascalzoni – correvano subito là, perché volevano…Be’, insomma, facevano di tutta l’erba un fascio. Invece non è così. Però è successo un fatto. Adele Beca aveva rubato il moroso a una mondina e l’altra l’ha palpata (picchiata). E noi, che contentezza! ” Ti sta bene, così un’altra volta lasci stare i morosi delle altre! “. Non c’erano le macchine, allora uscivano a piedi. Andavano in aperta campagna e via… Perché per far del male l’è bu pò èl pestaröl de la sal (è sufficiente il mortaio per pestare il sale) . Per questo erano giudicate male. E al ritorno: ” Siamo tornate sebben che eravam puttane, però non siamo incinte” – dicevano.
Domenica Tutta la gente era lì in piazza ad aspettarle. Poverine quando tornavano a casa, tutte brutte…brutte di colore, tutte rugginite .
♫♪… il mio amore lo sa già, prepara i baci che vègné a ca … ♫♪
Probabilmente trenta, quarant’anni fa si sopportava di più questa fatica, che adesso le nuove generazioni non vogliono più sopportare. Ho conosciuto un cinese che aveva bisogno di lavorare e l’ho preso qui alla mia azienda di Casalbeltrame. Lui in Cina aveva un’azienda agricola risicola, quindi ha ben idea del lavoro che deve fare. Poi è venuta la moglie, la sorella, la cognata, insomma un gruppetto di mondine che serve nella mia azienda. Durante il resto dell’anno lavorano chi a Milano, chi a Prato, chi a Torino. Ma in estate vengono di buona voglia a lavorare qua in risaia perché vedo proprio che è un lavoro che a loro piace. Loro preferiscono fare quello che hanno sempre fatto in Cina da quando avevano sette, otto anni. Lavare i piatti, cucire per loro è un ripiego. Lavorare in campagna per loro è un motivo di orgoglio.
(Claudio Cirio, Cascina Falasco, Casalbeltrame, Novara)
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